
Cultura e Spettacoli
Mercoledì 18 Marzo 2009
E a Erba la regina arrivò alle corse. A piedi
Il cocchiere si perse, Margherita giunse sola all'ippodromo: fu uno scandalo
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<+G_CULTURAFIRMA>Gianfranco Casnati
<+G_SQUARE><+G_TONDO>Ricordate la frase: «La Regina Margherita mangiava il pollo con le dita»? Qui, invece, ricordiamo la sovrana, moglie di Umberto I di Savoia e madre di re Vittorio Emanuele III, come protagonista della vita di Erba nell’ultimo decennio dell’Ottocento. A Margherita di Savoia, infatti, capitò di giungere solitaria a piedi e inattesa all’Ippodromo di Erba in una calda giornata di fine estate 1890, perché la sua carrozza si era persa nei prati a un chilometro di distanza. Il fatto curioso, legato alla storia del galoppatoio erbese, è documentato alle pagine 425 e 426 della bella ed elegante pubblicazione <+G_CORSIVO>Contributi per una Storia di Erba<+G_TONDO> edito nel 2007 dal Comune di Erba e dalla Banca di Credito Cooperativo di Alzate Brianza. Re Umberto I e la regina Margherita, con il principe ereditario, arrivavano sovente all’ippodromo di Erba Incino, dalla Villa Reale di Monza dove dimoravano durante le stagioni estiva e autunnale.
L’Ippodromo dell’Eupili fu costruito nel 1887 lungo il fiume Lambro, nella piana dove attualmente sorge il centro sportivo del Lambrone, dal conte Emilio Turati, proprietario della Villa del Soldo di Orsenigo e amico personale del re Umberto I. All’ippodromo, divenuto famoso e accolto a far parte del Jockey Club, si cimentarono i più validi fantini dell’epoca, tra cui il celeberrimo Federico Tesio. Lo spettacolo dei cavalli da corsa divenne anche occasione di mondanità. Quando la famiglia reale era ospite nella villa Basevi-Bozzotti di Tassera, il re soleva entrare all’ippodromo dando il braccio alla signora Bozzotti. Re Umberto e il figlio Vittorio Emanuele, erano soliti arrivare ad Erba in tarda mattinata, a cavallo, dopo una galoppata di qualche ora, con un seguito di ufficiali e dignitari di corte. La regina Margherita, invece, partiva da Monza da sola, in carrozza scoperta, arrivando direttamente alle corse, seguita dalle sue dame di corte. Qui, sempre da sola, faceva colazione sotto un “pavillon” appositamente allestito per lei. L’8 settembre del 1890, però, qualcosa andò storto e la regina fu protagonista, suo malgrado, di un clamoroso disguido “reale”. Gli addetti ai lavori dell’ippodromo avevano preparato tutto meticolosamente, per ricevere la sovrana. Ma mentre il comitato di accoglienza era schierato per tributarle tutti gli onori, i maldestri cocchieri reali giunti al Pian d’Erba, presero la strada sbagliata, infilandosi incautamente in un viottolo senza uscita. La carrozza reale finì con lo sprofondare miseramente tra le zolle di un prato e non fu più possibile smuoverla. Dopo un’ora di vani tentativi, la povera sovrana dovette rassegnarsi a scendere e, con i suoi giri di perle al collo di proverbiale memoria, a farsi un chilometro a piedi per raggiungere l’ippodromo. Dove, ormai, partite le corse, non vi era più nessuno a riceverla. Ferita nella sua vanità, Margherita rimase oltremodo indispettita e lo stesso giorno caddero parecchie teste. I dirigenti dell’ippodromo pagarono il prezzo più caro, vedendosi costretti a dimettersi. Lo scandalo, però, fu ad arte taciuto dalla stampa “amica”. Emblematica, infatti, la cronaca riportata dal giornalista del <+G_CORSIVO>Corriere della Sera<+G_TONDO> sulla giornata ippica, con dovizia di particolari solo delle corse. Ovvio tuttavia il seguito di pettegolezzi e polemiche non solo in paese, ma in tutti i salotti lombardi e sulla stampa repubblicana. <+G_CORSIVO>L’uomo di pietra<+G_TONDO>, giornale repubblicano, appunto, non si lasciò sfuggire l’occasione e si lanciò in una campagna di ridicolizzazione della sovrana. Il 13 settembre 1890, a pagina 3, infatti, pubblicò le sue vignette satiriche: una raffigurava un immaginario cippo, che sul luogo del misfatto, celebrava l’incidente occorso alla regina. L’altra rappresentava gli organizzatori delle corse, che, in ginocchio, in lacrime e tracciando una croce a terra con la lingua, si recavano a Roma a chiedere “l’assoluzione”.
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