Cultura e Spettacoli
Lunedì 06 Luglio 2009
Nuove idee per lo sviluppo
L'analisi del comasco Magatti
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto di «Il futuro richiede un altro modello di sviluppo» del sociologo comasco Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia dell'Università Cattolica, che uscirà sul prossimo numero di «Vita & Pensiero» (7 euro), in libreria dall'8 luglio.
Di fronte a una crisi di rapidità e intensità inaspettate, la tesi secondo la quale il crollo dei mercati finanziari sarebbe da attribuirsi agli illeciti di un gruppo di manager attratti dalla prospettiva di facili guadagni appare ormai del tutto inadeguata. A «deviare» – per riprendere l’espressione usata dal ministro Tremonti e riaffermata anche nel discorso di inaugurazione dell’anno accademico 2008-2009 dell’Università Cattolica a Milano – non è stato un gruppo di malaffare che avrebbe espugnato Wall Street, ma un intero modello di sviluppo o, per meglio dire, lo “spirito del capitalismo”.
A teorizzare le pratiche che oggi vengono condannate ci sono stati premi Nobel, grandi manager, politici di primo piano, per non dir nulla della presidenza della Fed. Altrove ho parlato di «capitalismo tecno-nichilista» (cfr. Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, 2009) come di un sistema che, sfruttando la sistematica separazione tra le funzioni e i significati, si è progressivamente affermato quale modello di riferimento nel corso degli ultimi due decenni. E come negli anni Settanta – con la crisi fiscale dello Stato, l’esplosione della soggettività, l’ingovernabilità degli apparati burocratici – sono affiorati i problemi dello statalismo, così la crisi nella quale siamo immersi (per limitarci solo a quella economico-finanziaria) mette a nudo le contraddizioni derivanti dall’eccesso di “mercatismo”.
Come allora, ci troviamo di fronte a una crisi di crescita: se gli anni Settanta hanno messo a nudo l’esaurimento del modello che aveva permesso vent’anni di sviluppo iniziato nel secondo dopoguerra, così la crisi finanziaria dell’autunno 2008 porta in superficie l’urgenza di correggere il modello capitalistico che si è imposto negli ultimi vent’anni. Ciò non significa affatto pensare che siamo alla vigilia di cambiamenti epocali, ma che, più modestamente, da questa crisi prenderanno avvio movimenti profondi che porteranno – lentamente e faticosamente – a una revisione di tale modello.
La separazione fra economia e realtà
Quanto accaduto può essere spiegato ricorrendo a una similitudine. Per fare la maionese occorre sbattere il tuorlo dell’uovo in modo da farne aumentare il volume facendovi entrare aria. Ma, come tutti coloro che hanno provato, la miscela che in questo modo si viene a formare ha la caratteristica di essere altamente instabile. Basta poco e la maionese “impazzisce”. In effetti, lo sviluppo del sistema finanziario degli ultimi 30 anni ha reso possibile uno straordinario aumento del volume delle risorse disponibili su scala globale: mediante l’introduzione di strumenti tecnici sempre più raffinati, non solo è aumentata vorticosamente la velocità degli scambi finanziari, ma è cresciuto anche, su scala planetaria, il volume complessivo delle risorse disponibili. Proprio quella innovazione finanziaria, di cui oggi vediamo l’inconsistenza, è stata uno degli ingredienti dello sviluppo economico globale degli ultimi due decenni. Il sistema ha funzionato molto bene per diversi anni e la sua crisi – come quando la maionese impazzisce – è probabilmente dovuta a errori ed esagerazioni che avrebbero potuto essere evitate. Ma il punto su cui conviene soffermarsi è un altro. Il problema è che, come la nostra maionese, l’architettura finanziaria su cui tale sistema si basava era estremamente precaria. E nonostante molti osservatori ne abbiano sottolineato la vulnerabilità, poco o niente è stato fatto. La ragione sta nel fatto che “il regime di giustificazione” di un tale modello si è basato sulla combinazione tra un discorso di tipo tecnico e una visione iperindividualizzata dell’essere umano. Il sistema, cioè, si è affermato ed è cresciuto perché “funzionava” e perché, nel contempo, era in grado di espandere la libertà individuale. L’edificazione di un tale sistema è stato un processo piuttosto lungo. Ma, alla fine, esso si è imposto, sbaragliando le visioni economiche concorrenti. A lungo andare, questo regime di giustificazione e le pratiche che esso ha legittimato hanno provocato una crescente separazione tra l’economia e la realtà. In primo luogo, nell’agire economico – così come in altri campi della vita sociale – si è insediata la convinzione dell’assenza di limiti all’agire umano. O meglio, che sistemi tecnici sufficientemente potenti potessero ampliare indefinitivamente la libertà d’azione individuale – che nello specifico si è tradotta in aumento esponenziale dei rendimenti finanziari. Concretamente, attraverso i famigerati bonus ai top manager, chi ha diretto il capitalismo globale era la prova vivente del fatto che i guadagni potessero aumentare a una velocità che, secondo i parametri dell’economia tradizionale, non sarebbero stati nemmeno immaginabili. Nel momento in cui rendeva il 100 o il 200%, l’attività finanziaria ha di fatto preso il posto di quella reale. In secondo luogo, nel capitalismo tecno-nichilista l’economia ha perso qualunque scopo sociale: il modello presupponeva, infatti, che la giustizia sociale e la cura della persona si realizzassero per mero effetto secondario. In gergo ciclistico, il “plotone” avrebbe seguito, grazie all’effetto di trascinamento generato dalla fuga in avanti del drappello di testa. E in un certo senso così è stato: come mi ha ricordato uno dei principali manager di una grande banca italiana, la stessa globalizzazione non avrebbe potuto darsi e centinaia di milioni di persone non avrebbero avuto accesso a un livello di benessere superiore senza gli strumenti che oggi chiamiamo “tossici”. Il che è senz’altro vero, salvo mettere tra parentesi gli inevitabili “costi umani” che l’accelerazione impressa dal capitalismo tecno-nichilista ha comportato su individui e comunità. In terzo luogo, la separazione dalla realtà si è manifestata nell’esasperazione della velocità della crescita. Per reggere, un modello che si prefiggeva di stimolare, per poi soddisfare, la volontà di potenza individuale, aveva bisogno di accelerare sempre più rapidamente. L’accelerazione della crescita si traduceva poi in quella delle vite individuali, quasi sopraffatte dal dinamismo parossistico del capitalismo tecno-nichilista. Tale effetto è icasticamente mostrato dalla trimestralizzazione dei periodi di rendicontazione dell’attività economica delle grandi banche d’affari cadute poi in disgrazia, talmente rapido era il tempo in cui era possibile ottenere enormi dividendi. Velocità che poi si è trasformata in un boomerang, dato che i tracolli a cui abbiamo assistito sono stati anch’essi tanto violenti quanto rapidi. Per assecondare questa esigenza di mantenere alta la velocità della crescita è stato necessario inglobare anche il futuro. L’idea di spingere il consumo a debito e, soprattutto, di rendere il debito merce vendibile – trasformando in attiva una posta passiva! – ha rappresentato – insieme con l’espansione planetaria – uno dei terreni parossisticamente esplorati e sfruttati per alimentare la crescita. Soggiacente a tutto ciò riposava la convinzione che la realtà potesse coincidere con ciò che i sistemi tecnici sono in grado di “far esistere”: il che concretamente ha significato che il ricorso all’indebitamento sistematico potesse permettere di introiettare il futuro nel presente, scaricando i costi (lasciati indeterminati) sulle generazioni successive. Una tale prospettiva si è spinta fino al punto in cui ogni riferimento al “senso” – cioè qualunque valutazione extratecnica (di ordine sociale, politico o morale) su quello che si fa – è stato rimosso. Ciò spiega come mai, negli ultimi due decenni, la crescita economica abbia avuto come unico obiettivo quello di un aumento indiscriminato delle opportunità individuali, a prescindere da qualunque altra considerazione. Nell’ipotesi che tale aumento delle opportunità costituisse un bene in sé, da perseguire comunque. Su questa china, lo sganciamento dell’economia dalla realtà è proceduto rapidamente, al di là dell’immaginabile, conseguenza del senso di euforica onnipotenza che gli eventi degli ultimi due decenni hanno favorito, a partire dalla caduta del Muro e dall’ingresso nell’era della globalizzazione. L’effetto dimostrativo di un tale modello finanziario è stato enorme, al punto che si può dire che la patologia finanziaria di cui stiamo sopportando le conseguenze rappresenta uno dei casi più puri di quell’“immaginario della libertà” che si è progressivamente sviluppato negli ultimi vent’anni nei Paesi avanzati. Non volendo fare i conti con il significato delle azioni e spingendo l’acceleratore dal lato del desiderio reso godimento, nel capitalismo tecno-nichilista il messaggio è ossessivamente divenuto sempre lo stesso: per crescere occorre potenziare il desiderio individuale che è l’energia inesauribile in grado di alimentare indefinitamente lo sviluppo. Il posto di qualunque significato collettivo è stato così preso dal potenziamento del desiderio individuale, la cui evocazione ha fornito l’energia necessaria a sostenere l’intero processo di sviluppo. Se si rimane all’interno di tale prospettiva, per uscire dalla crisi l’unico problema che occorre risolvere è il ristabilimento della condizione di fiducia in modo da tornare, il più rapidamente possibile, a investire e consumare. Il che è senz’altro tecnicamente vero, salvo evitare di porsi domande sugli sbocchi futuri di una tale evoluzione. Una strada diversa è ritenere che l’origine della crisi vada ricercata nella contraddizione in cui rimane prigioniero il modello di sviluppo degli ultimi anni via via che esso raggiunge i suoi traguardi: diventando sempre più autoreferenziale e convinto della sua onnipotenza, esso ha finito per rimuovere interi pezzi della realtà. La crisi non fa altro che rendere manifesti alcuni dei problemi impliciti in tale modello.
Keynes e il feticcio della liquidità
Con il crollo repentino del volume delle risorse disponibili, la crisi finanziaria fa riemergere una parte dimenticata della realtà. Il crack finanziario è stato di ampiezza tale da rendere inevitabile il trasferimento dei suoi effetti all’economia reale, con una riduzione della ricchezza complessiva disponibile su scala globale. Gli ultimi segnali sembrano far pensare che il crollo si sia arrestato, e quello ha spinto a sostenere che possiamo sperare di riuscire a scampare all’apocalisse. Il che è, per fortuna, probabilmente vero. Ma, detto questo, ciò non toglie che le conseguenze di quello che è successo segneranno profondamente gli anni a venire. Come ha capito già da molti anni Ulrich Beck, nel dispiegare la sua potenza il capitalismo tecno-nichilista ci espone a enormi rischi. E, in effetti, che un tale modello di sviluppo, rinunciando a ogni ricomposizione di senso, fosse un sistema esposto a grandi rischi – proprio perché raggiunge livelli di complessità sistemica mai visti – lo dimostra la storia di questo primo decennio del XXI secolo: dalle Torri gemelle alla crisi finanziaria, passando per i focolai di grandi epidemie globali, la diffusione impressionante della criminalità, il disastro ambientale, l’aumento della percezione di insicurezza, ci troviamo immersi in un mon- 43 FOCUS magatti.qxp 28/05/2009 12.41 Pagina 43 VITA E PENSIERO do dove, a fronte di una dimensione dei fenomeni sempre più grande, non disponiamo di livelli e strumenti di governo pertinenti. Nel caso della crisi finanziaria, è come se il mondo fosse stato colpito da un grave infarto. In una tale situazione, la prima preoccupazione è, ovviamente, quella di sopravvivere. E, in effetti, l’intervento d’urgenza delle autorità nazionali di questi ultimi mesi ha avuto – e ha ancora – proprio questo obiettivo: quando la crisi è acuta, il problema è usare i farmaci giusti; non c’è posto per nessun’altra considerazione. Per fortuna, la paura è stata così grande da consigliare a tutti prudenza. Il che ha favorito il coordinamento delle azioni e la definizione di alcuni interventi globali. In particolare, l’insperato successo dell’ultimo G20 ha rappresentato un momento di grazia che ha certamente aiutato a far tirare un respiro di sollievo all’intero pianeta. Ma, ammesso e non concesso che possa essere considerata superata, la fase acuta altro non è che l’anticamera di un periodo – più o meno lungo – di convalescenza nel quale è fondamentale riconoscere che non si può più tornare quelli di prima. Pretendere il contrario, far finta che non sia successo niente, tornare a vivere esattamente nello stesso modo, è una reazione comprensibile, umanissima, ma, molto spesso, sbagliata e, per giunta, molto rischiosa. Come dice il proverbio, non tutto il male viene per nuocere. Potrebbe essere, infatti, che proprio l’impossibilità di continuare a essere quelli di prima possa alla fine rivelarsi un vantaggio. Forse, attraverso le limitazioni che la crisi sta imponendo può diventare possibile recuperare dimensioni dimenticate o scoprire di avere qualità che non conoscevamo. Come dopo un infarto, per affrontare quello che la crisi sta provocando è probabilmente utile tenere presente che ci vorranno anni per riassorbire i costi umani e sociali che lo sconquasso ha provocato e che se ne uscirà solo grazie a un pensiero e un’azione innovativi, soprattutto per quanto riguarda la transizione individuo- istituzione. Nel medio termine, la soluzione della crisi non è semplicemente di tipo tecnico. O per meglio dire, ciò di cui c’è bisogno è di una tecnica che esprima una nuova visione culturale e una rinnovata logica istituzionale. Volendo risalire alla radice, la questione è, in ultima istanza, antropologica, perché la tecnica – compreso l’ambito economico e finanziario – ha fatto enormi passi in avanti nell’ultimo scorcio di secolo senza che il nostro pensiero (e le nostre pratiche) siano ancora in grado di governarli. Tali mutamenti, associati alla cultura prevalente e alle trasformazioni istituzionali che li hanno resi possibili, hanno favorito il formarsi di una concezione unilaterale della libertà, che – pensandosi come ab-soluta – ha finito per essere “immaginaria”. A ben guardare, se si prova ad apprendere la lezione che la crisi prova a darci, il problema che abbiamo di fronte consiste nel ri-costruire una relazione rispettosa della realtà, vista come un limite alla nostra volontà di potenza (come desiderio e come tecnica). Ciò concretamente significa abbandonare l’idea secondo la quale tutto ciò che viene creato dall’azione umana è, di per sé, legittimo. Nella realtà, le cose non stanno così, perché le forme sociali nascono e hanno sempre a che fare con il risorgente problema di gestire un limite. Che deve essere mobile e negoziabile fin che si vuole, ma che pure va rispettato. Limitandoci in questa sede ai temi economici, era stata questa, a ben guardare, la grande lezione di Keynes dopo la Grande Depressione. In sostanza, Keynes aveva sostenuto che l’economia (ma dovremmo dire lo stesso della tecnica in generale) ha un difetto fondamentale: nell’inseguire la massimizzazione del profitto, essa tende a darsi perdendo il proprio rapporto con il reale. La tecnica è uno strumento prezioso, una straordinaria benedizione, ma si deve stare sempre attenti alla sua implicita pretesa di organizzare l’intera nostra esistenza. Nel caso del mercato, Keynes aveva bene in mente la radice del problema che egli chiamava “il feticcio della liquidità”, e cioè la fatale preferenza del sistema finanziario (che è indispensabile per lo sviluppo) per il profitto di breve termine. Quando tale tendenza riesce ad avere uno spazio troppo grande, le conseguenze possono essere devastanti, perché l’economia non serve più gli scopi sociali per i quali nasce. In questo caso, l’economia può addirittura diventare una macchina che distrugge la socialità. Avendo in mente questo problema, Keynes progettò un’architettura complessa – sul piano nazionale e internazionale – che doveva servire per fare in modo che l’economia venisse protetta da questo rischio. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 e le regole della politica economica basata su tassazione e spesa pubblica – sul cui fondamento nacque il welfare state – furono esattamente questo: sulle sue basi, si rese possibile lo sviluppo solido dei primi decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Ma è chiaro che, in questo modo, ciò che si faceva era porre un limite alla crescita: la crescita economica è un bene, un valore importante, ma non può essere perseguito a qualunque costo e in qualunque modo. Non si tratta semplicemente di pattuire delle regole. Le regole, infatti, definiscono il rapporto con il reale. Cioè con il valore sociale dell’economia. I sistemi politici nazionali, nel quadro di una cornice internazionale, erano i soggetti sulla cui autorità si fondava la possibilità stessa di sostenere tali limiti. In questo senso, si può dire che il modello keynesiano assumeva che una crescita stabile necessita di uno sviluppo sociale complessivo e che la migliore garanzia per una crescita economica di medio-lungo termine è data dallo sviluppo sociale. Il che concretamente ha significato accettare un ritmo di crescita meno rapido ma più solido e solidale. Ora il problema non è tornare a quel modello, ormai largamente superato proprio dalla dinamica della globalizzazione. Nel quadro attuale, un tale ritorno si tradurrebbe immediatamente in pratiche di tipo protezionistico, con conseguenze incalcolabili. Le condizioni storiche oggi sono del tutto diverse da quelle del dopoguerra. Ma, detto questo, logicamente la questione è la stessa: il problema infatti, oggi come allora, è quello di ricreare delle condizioni istituzionali che fissino i limiti della crescita e chiariscano le sue fondamenta sociali. Da questo punto di vista, il tempo che stiamo attraversando è portatore di una straordinaria opportunità. In fondo, costituisce un nuovo forte campanello d’allarme che permette di cogliere le contraddizioni del modello di sviluppo che si è affermato negli ultimi vent’anni. Essa costringe alla ricerca di un pensiero nuovo. Se la questione sociale e quelle legate al senso riproposte dalla crisi non dovessero venire recuperate, ciò che ci dobbiamo aspettare è un incattivimento dei rapporti sociali, con la radicalizzazione delle disuguaglianze (già significativamente aumentate negli ultimi vent’anni) e dei rischi globali. A differenza del passato, però, la soluzione di cui abbiamo bisogno non va cercata con riferimento solo al piano nazionale. Proprio l’avvenuta globalizzazione fa sì che una crisi delle dimensioni di quella che c’è stata comporti la costruzione di nuovi assetti culturali e istituzionali. È nel momento in cui il peggio è alle spalle che il rischio dello scaricabarile e del protezionismo diventa imminente.
Quali scenari ci aspettano
Sul piano macro (globale), gli esperti insistono su una duplice questione: l’urgenza di avviare un piano di sostegno della spesa e la necessità dell’introduzione di nuove regole per i rapporti finanziari. Entrambi questi obiettivi sono opportuni, ma hanno bisogno del ristabilimento di una qualche nuova relazione tra la sovranità e il mercato, la quale a sua volta rinvia a temi più generali legati al senso dello sviluppo. Il problema è che non c’è coincidenza tra la natura della sovranità esistente, fondamentalmente statuale, e lo spazio che va regolato, di natura globale (o quasi): quale autorità può prendere il posto dello Stato sovrano nel fissare e reggere il nuovo limite che viene creato? Bretton Woods ha funzionato e retto per quasi quarant’anni perché è stato un corollario della Seconda guerra mondiale dettato dai vincitori. Negli ultimi mesi, sono emersi alcuni segnali di speranza circa la possibilità di arrivare a nuovi modelli di governance. In particolare, il G20 tenutosi nel marzo 2009 è stato un passaggio importante: l’idea che si intravede nella decisione finale è una sorta di piano Marshall globale per sostenere lo sviluppo mondiale, soprattutto dei Paesi del Terzo Mondo. Andare in questa direzione sarebbe importante, ma la strada intrapresa pone una serie di questioni: ad esempio, a parte il sostegno della domanda, quali sono le riforme sociali (e non più finanziarie, come venivano imposte dal Fondo monetario internazionale negli anni Ottanta e Novanta) che devono essere avviate per sostenere stabilmente lo sviluppo di questi Paesi? E, superata la paura del crollo, le opinioni pubbliche dei Paesi ricchi continueranno a sostenere un’idea di questo tipo? Il problema è che, in quel momento, a sostenere una decisione di quel tipo ha giocato, oltre alla leadership di Obama, il fatto che tutti i Paesi si sono resi conto che poteva ancora valere la pena di provare a giocare la carta della cooperazione. Ma rimane aperta la questione della conferma di tale disponibilità. Nel concreto, nei prossimi anni, la questione sarà quella di verificare l’esistenza di interessi sufficientemente convergenti per costruire un sistema di governance globale relativamente stabile oppure se, per arrivarci, sarà necessario passare attraverso un qualche livello di conflitto – a seguito del quale si venga a determinare un vincitore in grado di dettare le sue regole. Non si deve dimenticare che Bretton Woods è stato uno dei prodotti della Seconda guerra mondiale, quando le potenze vincitrici dettarono il nuovo sistema di regole. Oltre alle capacità e alla lungimiranza dei leader, una soluzione positiva è molto legata al ruolo che giocheranno le opinioni pubbliche, sostenendo o meno le iniziative più intelligenti proposte dalle élites. Per questo, non sarà possibile sostenere alcuna soluzione sul piano macro-globale senza una forte azione riformatrice su quello micro. Anche su questo secondo piano, dunque, la crisi pone questioni di vasta portata. Al fondo, l’interrogativo attorno a cui ci si dovrà interrogare concerne l’eventuale emergenza di “nuovo immaginario della libertà” in grado di decentrare l’ossessione del desiderio individuale e di reintrodurre, anche se in forma del tutto nuova, una dimensione “sociale” e “di senso”. In sostanza, la sfida toccherà il ristabilimento di una nuova logica dello sviluppo che rinunci allo sfruttamento infinito del desiderio reso godimento, assumendosi la responsabilità di orientare una tale energia per sostenere/riprodurre/rigenerare le basi della socialità. Per fare emergere questo nuovo immaginario ci vorrà tempo, ci vorranno nuovi soggetti sociali, ci sarà bisogno di nuove idee. Dopo che ci siamo “liberati”, forse è ora di capire che ognuno di noi è troppo dipendente dagli altri per potere avere accesso alla felicità in modo individualistico e senza porsi domande su quello che sta facendo. Come l’esperienza dimostra, un modello che punta solo sul desiderio soggettivo, se risolve alcuni problemi, lascia molte conseguenze negative. Per questa stessa ragione, un tale riorientamento non potrà essere prodotto solo per effetto di un’azione politica, anche se è difficile immaginare di poterlo fare senza politica. Esso potrà avvenire solo se nella società civile e nell’economia nasceranno i germi in grado di sostenere tale visione. La politica potrà semmai essere l’interprete di tali movimenti, in qualche caso potrà esserne la levatrice. Ma non potrà mai riuscire a imporre una nuova visione. Per quanto tale ristabilimento possa avvenire su basi diverse, si dovrà almeno trovare un’intesa sulla questione di fondo, e cioè sul fatto che la strada battuta negli ultimi decenni va corretta. Per tutti questi motivi, è ragionevole pensare che l’uscita dalla crisi non sarà questione di mesi, ma di anni, e che essa coinciderà con l’ingresso in una nuova fase di sviluppo che potrà decollare solo quando questi due piani troveranno una qualche nuova saldatura, di cui oggi non vediamo ancora i contorni. Detto in altre parole, si tratta di costruire una nuova forma di transizione tra individuo e istituzione, dopo l’epoca del capitalismo societario, basato sulla centralità dello Stato come controllore delle risorse economiche e garante della moralità pubblica, e quella del capitalismo tecno-nichilista – in cui un ruolo centrale è stato svolto dal mercato come istituzione regolatrice del desiderio. Come raggiungere il nuovo equilibrio è oggi un problema aperto, anche perché si devono muovere contemporaneamente il piano macro e quello micro nei quali agisce una pluralità impressionante di attori. Avendo avviato una spirale negativa, la crisi impone l’urgenza delle cose. Al fondo, com’è successo in tante altre epoche, il problema è quello di ri-immaginare la libertà, in se stessa – come pensiero della libertà – e in rapporto al mondo e agli altri, nel suo rapporto con gli assetti istituzionali. Per questo, non si tratta solo né essenzialmente di una questione tecnica. La questione è anche, in seconda battuta, tecnica. Ma, prima, viene una filosofia, una visione, un’ispirazione. A partire da qui, il tema diventa immediatamente istituzionale, legato cioè al tipo di istituzione che saremo capaci di inventare per entrare nel tempo che verrà. Negli ultimi decenni, con il passaggio dallo Stato al mercato, il compito di riaggregare la domanda, vista esclusivamente come individuale, è stato affidato solo a quest’ultima forma istituzionale. Ma il mercato individualizzato – per quanto costruisca un sistema straordinario, di una potenza impressionante – è capace di filtrare solo alcuni tipi di domande. Di fatto ciò ha limitato la base sociale dello sviluppo economico e ha costretto a spostarsi sempre di più sul versante del desiderio e dell’emozione. In origine il modello ha avuto il merito di contribuire a liberarci dalle ideologie. Ma, con il tempo, ha finito con il sostituire alle vecchie una nuova: e cioè selezionare solo alcune questioni, alcuni temi, facendone cadere altri. Infatti, solo le questioni che potevano aggregarsi come domanda individuale hanno avuto cittadinanza. E solo quelle che esprimono la volontà di potenza individuale. Oggi la crisi ci invita ad andare oltre questo tempo. Se solo sapremo capire ciò che essa ci vuole insegnare.
* Mauro Magatti, comasco, è preside di Sociologia all’Università Cattolica. È appena uscito il suo saggio «Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista» (Feltrinelli). Nel numero 3/2009 di «Vita e Pensiero», oltre al suo scritto, figurano testi di Gianfranco Ravasi, Jean-Claude Guillebaud e Riccardo Iacona.
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