Sul Muro la città
ha chiuso gli occhi

Il paesaggio è sparito. Un fatto isolato o il culmine di un accecamento collettivo? Il regista Paolo Lipari ne trae spunti per una riflessione a 360°.

di Paolo Lipari

Una città con gli occhi chiusi. Ben che vada sta dormendo. Oppure, come nei film polizieschi, forse è solo svenuta. L’eventualità più infausta meglio neppure nominarla. Di certo Como ha problemi di vista. Dopo la chiusura di sale cinematografiche a raffica, come le casse di un supermercato a fine giornata, eccoci al più clamoroso oscuramento della nostra storia: a sparire è il panorama. Uno psicanalista farebbe in fretta a diagnosticare un complesso edipico in fase tre. Dopo l’uccisione del padre e l’incesto (a voi la libertà di recuperare nomi ed eventi cui riferire il tutto) ecco l’epilogo: la cecità auto-inflitta in un estremo momento catartico. Per la gioia di Flavio Oreglio. Ma che Como non viva un rapporto sereno con l’esercizio dello sguardo non è una novità. E su vari fronti. Proviamo a ricordarli. Primo fra tutti il più antico e risaputo: quello geomorfico. Ognuno di noi avrà avuto un parente o un amico residente al mare o in pianura, quasi in imbarazzo a trovarsi qui, improvvisamente circondato da pareti naturali belle quanto si vuole ma pur sempre occlusive. Che il tramonto arrivi subito dopo la merenda è un fatto che noi impariamo ad accettare dall’infanzia. Per altri può essere uno shock. «Maioresque cadunt altis de montibus umbrae». Nel buio del Volta, gli esametri di Virgilio sembravano essere stati concepiti lì, al momento, in un mezzogiorno che pareva già la notte prima degli esami. Per la gioia di Fausto Brizzi. Del resto siamo così affezionati all’evento dell’imbrunire da esserci cercati un sindaco che lo evocasse già nel nome. L’imbrunire… È anche vero, però, che l’uscita e il rientro dal "catino" comasco sono per tutti divenuti una prassi quotidiana capace di sfondare qualsiasi luogo comune. In realtà, i comaschi di oggi sono allenatissimi alle visioni più spalancate: dall’Arizona al monte San Primo. Perché allora si coprono gli occhi? Proviamo a chiederlo al secondo fronte, quello urbanistico. «Un tempo da qui si vedeva…». Quanto volte ce lo siamo sentiti dire? Nel paesino poggiato sul lago, all’ultimo piano del palazzo in centro, persino dall’alto di Brunate. Che le prospettive cambino è un destino inevitabile, non necessariamente infausto. Ma qui, in una terra che non ha altro da chiedere che essere amata, è ben strano che ogni trasformazione abbia in sé il segno della perdita. Almeno per gli occhi. Le eccezioni non mancano. Al Baradello, da Villa Olmo al Grumello sino a Villa Erba o sulla collina di Cometa… lì si sta lavorando per gratificare i nostri occhi, in ogni direzione, lì si cerca di vedere meglio e di più. Ma altrove? Se si libera la vista è per privarla di qualcosa che la appagava (il cedro davanti al Sociale) o di qualcosa che avrebbe potuto premiarla (i fatiscenti edifici della Ticosa recuperabili come polo artistico e creativo). L’invisibilità sembra diventato l’obiettivo da perseguire. Anche in senso sociale. E qui siamo già arrivati al terzo fronte. Quello psico-comportamentale. Nella sua forma più nobile si chiama riservatezza. Nella sua espressione più ruvida ha a che fare con il ripiegamento in sé. «Che i comaschi pensino ai muri di casa loro!». Una frase del genere, così aspra e sbrigativa, non può essere spuntata dal nulla. Ad averla pronunciata non è soltanto la voce di un politico messo alle strette, con le spalle al muro per l’appunto. Dietro a quelle sillabe così balzane c’è tutto un edificio (e ti pareva…) di battute con cui abbiamo famigliarità quotidiana: «Rump mia i ball…», «Lassa star…», «Sta’ schiscio…». Ecco, a furia di stare schisci, ci siamo svegliati schisciati. La ragione? Forse un atavico pudore di stampo manzoniano. Io ci ho provato a mettermi nei panni del Caradonna, in piedi, dall’atra parte della finestra ritagliata nella palizzata del cantiere, quella con su scritto «Sacaim». Innanzitutto, sul vetro, ci ho letto, al contrario, «Mia cas». E già… Poi ho cominciato a sentire l’ebbrezza, molto comasca, di poter mettere i pugni ai fianchi. La faccia mi è diventata più stretta, il petto più sporgente, i tacchi più alti di una paratia. Quello spazio era diventato un posto che mi chiedeva di essere difeso. Da che cosa? Mica dal lago, siamo seri. E neppure dagli apaches. Era un luogo da proteggere dagli sguardi. Ed eccoci allora all’ultimo scenario. Per rispetto del lettore tralascio quello climatico (sulla foschia lacustre se ne potrebbero comunque raccontare) o quello fisiognomico ( i laghée hanno il taglio degli occhi sottile, due righe disegnate dalla breva. Per la gioia di Van de Sfroos). Veniamo piuttosto al dunque, al campo centrale: quello economico. Per noi comaschi la ricchezza va vissuta come la povertà, con discrezione. Pesanti cancelli, fittissime siepi, eleganti paraventi. Le dimore più prestigiose qui dicono di un benessere costruito attraverso grandi fatiche private, sudori famigliari, storie da trattenere nel segreto di album senza fronzoli. La produzione tessile, così come quella del legno, per quanto tutta votata al sublime spettacolo della bellezza creativa, è gelosa di sé. Non ama l’esterno che distrae, ruba, perturba. All’eventualità di una risposta invidiosa, si preferisce il sacrificio dell’occultamento. I narcisi, nel nostro territorio, sono rimasti (quei pochi) sul Pian del Tivano. In valle non ne troverete uno soltanto. L’esibizione è percepita come rischiosa più ancora che vacua. Meglio allora stringersi tra il lago e la collina come in due spalle votate all’umiltà. Lontano da occhi cattivi. E tutto questo può forse spiegare l’accecamento collettivo in corso? Non lo so. Di certo, però, la vista, un bene ovunque primario e qui persino vitale, è proprio il senso che stiamo più maltrattando. Il grigio-bunker di cui ci stiamo vestendo (non solo sul lungolago ma anche dietro il Duomo o in piazza Martinelli) ha molto a che fare con una divisa, una tuta da lavoro. A emergere è uno spirito persino apprezzabile, se si vuole, nella sua formale morigeratezza. Ma oggi, in questa fase storica della nostra città, un atteggiamento assolutamente nefasto, inconcepibile. Sarebbe questo il momento di spalancare gli occhi, truccarli, girarli seducenti. Mica di chiuderli. La nostra risorsa non può che essere il turismo? E allora solletichiamoli questi benedetti sguardi! Fiori (coloratissimi e in quantità esagerata), insegne (a valorizzare anche l’effimero: «qui hanno girato Guerre stellari»), getti d’acqua (finalmente potenti, generosi, mica da tombino guasto come in piazza Cavour)… La ricetta non può certo fermarsi qui. La pozione da somministrare andrebbe calibrata con il concorso di tanti, anzi, di tutti. E occorrono mezzi adeguati. Il video, nella ricerca di nuove prospettive, nella osservazione del presente, nel movimento degli sguardi, può essere un umile strumento infinitamente prezioso. Può diventare specchio, lente, vetrina, cannocchiale… Tanto per provare a guardare al di là del muro. Questo il sogno dei dreamers, gli studenti della scuola cine video che mi onoro di guidare nell’ambito del progetto sostenuto dalla Camera di Commercio di Como. Un sogno pronto ad essere condiviso da chiunque lo voglia.

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