A scuola il "Bocciato"
era un uomo morto

"Arrivò in quarta elementare, lo chiamavano il Cadavere". In anteprima il capitolo iniziale di "Una storia di lago", nuovo romanzo breve di Andrea Vitali, pubblicato in edizione limitata da Fiera Milano e presentato a Villa Erba di Cernobbio

Pubblichiamo, in esclusiva, il capitolo iniziale del libro di Andrea Vitali «Una prima storia di lago» presentato il 14 novembre alle 18.30 a Villa Erba di Cernobbio. Il romanzo breve del medico-scrittore bellanese, 52 anni, collaboratore de «La Provincia», edito e in esclusiva da Fiera Milano congressi-Fiera Milano editore, non avrà un circuito commerciale. Prefazione di Maurizio Lupi e postfazione di Fulvio Panzeri.

di Andrea Vitali

Negli anni sessanta non faceva meraviglia alcuna che maestre, (e maestri anche, molto più rappresentati come numero in tale categoria rispetto ai giorni nostri), bocciassero. Lo facevano sicuramente per il bene dell’alunno provocando, inconsapevolmente o meno, la stizza di quei genitori che non vedevano l’ora di avviare a qualche carriera lavorativa il ragazzo, mettendo così a frutto la sua esistenza in vita. A volte, in un numero statisticamente minoritario di casi, i genitori del bocciato incassavano il provvedimento, comprendendone le ragioni e poteva capitare che, rassegnati, giungessero addirittura a ringraziare l’insegnante. Non so a quale di queste due categorie potessero appartenete Anemio Agrati e sua moglie Morosina. Non so, cioè, come presero la bocciatura del figlio che lo fermò all’altezza della quarta elementare dandomi così la possibilità di raggiungerlo. Era, quello, il primo bocciato della mia vita. Il primo in carne e ossa, intendo. Fino ad allora per me quel destino infame era rimasto nel limbo delle possibilità. Una cosa che poteva capitare, ma altrove, ad altri, non all’interno della comoda bambagia dentro la quale vivevo. Invece fui costretto a prendere atto che la bocciatura aveva una sua fisicità, occupava spazio, un profilo. E anche un suo iter cerimoniale. Terribile. Il primo giorno della quarta elementare, tutti noi, promossi dalla terza, in piedi dietro i rispettivi banchi da poco assegnati, vestiti della casacca nera, lustra e fresca di stiro, in un silenzio perfetto e rispettoso dovemmo assistere all’inquietante spettacolo dell’esibizione del bocciato. Il maestro infatti, un tipo alto e magro, dotato di un singolare metodo di riporto dei capelli per salvaguardare il quale ci avrebbe impedito più avanti, durante la stagione calda, di aprire le finestre onde non creare una corrente che glielo avrebbe scompigliato, gli ordinò di uscire dal banco e di raggiungerlo. Quindi gli ingiunse di fermarsi a lato della cattedra e, indicandolo con una bacchetta di bambù, tenendolo a distanza come se fosse infettivo, ci disse di guardarlo bene perché quello era un bocciato. Io stavo in secondo fila. Come tutti obbedii agli ordini del signor maestro. E devo dire che trassi da quell’ispezione un’impressione sconvolgente. Devastante addirittura. Il bocciato se ne stava a occhi bassi. Pallido come se l’estate appena passata fosse stata per lui una stagione di totale eclissi di sole. Magro anche, come se oltre al buio l’avessero condannato per punizione a una dieta di pane e acqua. Non emise parola, non si usava parlare se non interrogati. E all’ordine del maestro ritornò al banco strascicando i piedi: in fondo alla classe naturalmente, e senza compagnia. Fu quello il mio primo incontro col Cadavere. Che, inutile dirlo, aveva come tutti un nome proprio. Ma era già, all’epoca di quell’incontro, tramontato, dimenticato, offuscato e sostituito da quel nomignolo assurto, per consuetudine d’uso, a nome vero e proprio. Lo sentii appellare così proprio quella mattina, al termine del primo giorno di scuola, nella confusione dell’uscita e nel confondersi delle grida trattenute per troppe ore. Io non presi parte a quel necessario sfogo. Non perché fossi particolarmente osservante o timido. Piuttosto perché l’esposizione del bocciato mi aveva singolarmente colpito. Il suo aspetto esile, vinto, quasi trasparente mi aveva talmente impressionato al punto che volevo imprimermi per bene nella mente quello che sarei diventato in caso di bocciatura. Avevo passato tutta la mattina col desiderio di avere un paio di occhi nell’occipite per poterlo fotografare ben bene in ogni particolare. Tentato, anche, di girarmi ogni tanto per sbirciarlo, cosa che però mi guardai bene dal fare: se il maestro mi avesse beccato in un attimo di distrazione, ero sicuro che mi avrebbe dato la prima spinta sulla strada della bocciatura. Così, a malincuore, avevo rimandato e approfittai dell’uscita generale per compiere la mia indagine: lasciai che gli altri sfilassero, mi tenni dietro di lui. Stava solo, con quel marchio d’infamia che gli aleggiava intorno. Mentre si stava avviando così verso casa, il blocco dei suoi ex compagni, adesso in quinta, uscì dalla propria aula e udii i saluti tra di loro. «Ciao Cadavere!». Sobbalzai. Forse ebbi anche un tuffo al cuore. Sentire quell’appellativo mi diede freddo: che, all’ignominia della bocciatura, alla gogna dell’esibizione ci fosse da aggiungere il battesimo di un nome nuovo e spregiativo? Sobbalzai quindi. Io solo però. Lui invece non fece una piega. Si limitò a scrollare le spalle e a rispondere dei «Ciao» profondi, senza allegria. D’altronde come poteva essere allegro? Restai alle sue spalle per un po’, guardando passare i suoi vecchi compagni che uno dopo l’altro lo salutarono così. «Ciao Cadavere»! «Ciao», rispondeva lui. Senza astio, senza accenni di ribellione. Che quello allora, mi chiesi, fosse il suo vero nome? Poco dopo compresi che non poteva essere, un suo nome l’aveva. Lo gridò, sulla soglia del palazzo scolastico, il bidello Arcorati quando, scorgendolo, tentò di richiamarlo. Lui però non se ne diede per inteso, proseguendo la sua lenta marcia d’avvicinamento verso casa. Così che l’Arcorati, che aveva un bel ventre, fu costretto a rincorrerlo e poi fermarlo per dirgli di riferire a suo padre che quella cosa che gli aveva chiesto gli serviva ormai, con una certa urgenza. «Va bene», rispose lui. Poi si girò e riprese la marcia verso casa. Io mi ero fermato a guardarlo. Lo vidi infilarsi e poi sparire nel buio di una contrada. La mia logica non era granché all’epoca di questi fatti. Mi bastò peraltro per capire che se lui rispondeva quando lo chiamavano Cadavere mentre si faceva rincorrere da un bidello grasso e goffo quando costui usava il suo nome di battesimo, probabilmente era perché, lui per primo, lo considerava tale. Preferiva così, insomma. Tant’è che da quel giorno, nell’intimo dapprima, cominciai anch’io a chiamarlo così: Cadavere. <+G_CORSIVO>© 2008, Garzanti Libri s.p.a.<+G_TONDO>

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