D'Annunzio e Barbara Leoni/2
Il poeta conteso tra arte e amore

Mentre il Vate intensifica la propria attività letteraria
lei si strugge in lunghe attese e minaccia di lasciarlo

Le lettere che quasi ogni giorno scrive a Barbara ci permettono di seguire i tempi e i modi della stesura del romanzo e soprattutto ci consentono di penetrare a fondo nella dialettica di un rapporto amoroso che, proprio per il fatto di essere ora affidato alla carta e di non avere più il grande sfogo degli incontri regolari e del sesso, rivela, a chi lo osserva dall’esterno, la sua sostanziale precarietà o, per lo meno, il grave squilibrio che lo caratterizza. Da una parte, infatti, c’è Barbara che, a mano a mano che passano le settimane e i mesi, fa sempre più fatica a capire come, nonostante le reiterate dichiarazioni d’amore e nonostante continui a parlarle del bisogno "fisico" che ha per lei, il suo uomo possa restare così a lungo lontano: insomma, soffre e si strugge d’amore, un amore che le costa non poco, anche per via dei problemi di salute e dei guai domestici che la travagliano. Dall’altra parte, invece, Ariel le protesta sì tutto il suo amore, la sua fedeltà e il suo inesauribile bisogno di lei, ma continuamente rinvia o addirittura nega ogni possibilità di incontro. Difende così la sua "fatica", non senza teorizzare, vittimizzandosi, la tragicità della sua condizione di uomo diviso tra le ragioni dell’"Arte" (con l’iniziale maiuscola) e quelle dell’"amore" (con l’iniziale minuscola). 

Alla fine Barbara, resa conscia dalle magnifiche parole dell’amico del suo ruolo di bella musa lontana di un’"Arte" che non può essere in alcun modo ostacolata, cede, paga, sembra, di sapere che lui, spesso, di notte la sogna "lascivamente" e altrettanto spesso la possiede, "lei e la sua bocca, in sogno".
Lo aspetta fino al febbraio del 1889, quando, terminato il romanzo e risolte alcune beghe pescaresi, Gabriele torna finalmente a Roma. Poi, per tutto l’inverno e la primavera divide con lui le fasi della stampa e del lancio del <Piacere>, che vedrà la luce in maggio, e soprattutto torna a vivere appassionatamente il suo rapporto con Barbara. I due, infatti, nonostante le scenate della moglie Maria e nonostante le minacce del signor Leoni e i tentativi dei Fraternali di far rinsavire la loro Natalia Fraternali, sono quasi ogni giorno insieme. Sono in giro per Roma, per musei, mostre e chiese e, in aprile, vanno ad Albano, dove festeggiano con "una settimana d’amore" il secondo anniversario del loro incontro. Ma più spesso passano il tempo in intimità, nel buen retiro che il poeta si è procurato in via Borgognona e che ha provveduto ad arredare con tappeti, drappi, cuscini, ninnoli, oggetti sacri, vasi e cianfrusaglie varie, tutte cose sacre al loro amore, perché tutte "consapevoli" dei loro amplessi.
Poi, nell’estate di quel 1889, Gabriele e Barbara vanno a trascorrere insieme due mesi di vacanza a San Vito Chietino, in Abruzzo. Là, nei locali presi in affitto in una casetta rustica addobbata in fretta e furia per farne un tempio dell’amore, essi vivono, almeno in apparenza, felici, paghi l’uno dell’altra, sole mare, amore, sogni, passeggiate, proprio come Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio, i protagonisti del romanzo <L’invincibile>, quello che diventerà il <Trionfo della morte> e che muove allora i primi passi.

In settembre Barbara fa ritorno a Roma. Gabriele, invece, si trattiene ancora in Abruzzo a lavorare all’<Invincibile>. Ma alla fine di ottobre è costretto a lasciare Francavilla per Roma e a interrompere il romanzo e tutta la vasta attività letteraria che ha nel frattempo avviato e che negli ultimi mesi ha visto nascere, oltre alle nuove liriche confluite nella <Chimera>, molti dei componimenti che sarebbero poi entrati nelle <Elegie romane>: una "minaccia oscura", scrive a Barbara, "un pericolo terribile", incombono su di lui.
Il 1° novembre 1889, infatti, è chiamato a prestare il servizio militare, che deve assolvere con un anno di volontariato nei Cavalleggeri d’Alessandria, accasermati a Roma presso il Macao. Per l’elegante intellettuale è un brutto colpo. Nei primi tempi egli affronta la vita militare in modo melodrammatico: neppure il suo "peggior nemico", scrive a Barbara, avrebbe potuto immaginare per lui "un supplizio più feroce, più disumano". Poi per fortuna con il trascorrere del tempo, grazie ai frequenti congedi e alle fughe dalla caserma protette da superiori compiacenti e grazie alla premurosa vicinanza di Barbara, sempre pronta ad accorrere a ogni suo invito, le cose vanno un po’ meglio ed egli si adatta. Per un anno, tuttavia, rimane condannato all’inattività letteraria.
Nel novembre 1890, terminato il servizio militare, D’Annunzio va a abitare in un ampio locale al pianterreno di via Gregoriana 6, nei pressi di piazza di Spagna, che arreda secondo il suo gusto, riempiendolo ancora una volta con quella mescolanza bizzarra di cose preziose e di oggetti assolutamente privi di valore che tanto gli piace. Ormai, ha definitivamente lasciato la moglie e i figli, che del resto da tempo devono provvedere senza il suo aiuto ai loro bisogni. La situazione della moglie Maria Hardouin, in particolare, è così drammatica che, in un momento di disperazione, la donna tenta il suicidio buttandosi da una finestra.
Nello stanzone di via Gregoriana, dove ogni giorno si reca a fargli visita Barbara, D’Annunzio si rimette faticosamente al lavoro. Nei primissimi mesi del 1891 compone così un nuovo romanzo, o meglio un racconto lungo: il <Giovanni Episcopo>. I soldi che riesce a mettere insieme collaborando alla "Nuova Antologia" anche con nuovi componimenti poetici naturalmente non gli bastano per vivere all’altezza delle proprie esigenze, tanto più che spesso deve aiutare Barbara, che è ormai priva di introiti, e così ben presto si trova sommerso dai debiti. Di fatto, in marzo, i creditori passano alle vie legali ed egli è costretto a lasciare Roma, dove tutti i suoi beni vengono messi sotto sequestro - ma gran parte verranno segretamente trasferiti in salvo in Abruzzo -, e a cercare ancora una volta rifugio a Francavilla, da Michetti.
A Francavilla, tra l’aprile e il luglio del 1891 riprende a lavorare. Non gli mancano, invero, preoccupazioni e amarezze. Soprattutto lo angustiano le tristi condizioni economiche in cui la sua famiglia paterna si dibatte a Pescara. Ma, tra la primavera e l’estate lavora sodo e attende alla stesura di un nuovo romanzo, intitolato dapprima <Tullio Hermil> e da ultimo <L’innocente>.
Quanto ai suoi rapporti con Barbara, si ripete in quei mesi, con poche varianti, la medesima situazione dell’anno precedente. Invano, da Roma, Barbara, ormai "incredula dell’avvenire", gli scrive lamentandosi del suo prolungato soggiorno in Abruzzo e lo minaccia a più riprese di lasciarlo per sempre. Egli, per quanto continui a tenerla legata a sé nelle sue lettere quasi quotidiane, con ogni sorta di promessa, non è assolutamente in grado di pensare di poter mantenere se stesso e lei a Roma, come pure sembra volere. Nel frattempo, alle preoccupazioni personali e a quelle familiari, si aggiunge anche il rifiuto dell’editore Treves, cui ha subito inviato il manoscritto, di pubblicare <L’innocente>, perché, a suo inappellabile giudizio, eccessivamente immorale. Ed è forse per trovare un nuovo editore o forse per trovare una soluzione quale che sia al suo stato o forse, più semplicemente, per accompagnare l’amico Michetti, che verso la fine di agosto del 1891 D’Annunzio si reca a Napoli.

Inizia a questo punto l’ultima fase della relazione tra Gabriele e Barbara: la fase che non solo vede la relazione sciogliersi lentamente ma inesorabilmente. A Napoli, di fatto, D’Annunzio secondo quanto aveva annunciato a tutti, Barbara compresa, avrebbe dovuto rimanere pochi giorni. Invece, dopo aver ottenuto che Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao  gli pubblichino a puntate <L’innocente> sul "Corriere di Napoli", decide di fermarsi per qualche settimana e finisce per rimanervi più di due anni.

Federico Roncoroni

        (2.continua)

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