Il prigioniero dell'Eiger
tradito e condannato
dà la scalata alla verità

Un libro su Claudio Corti riscrive la tragedia alpinistica
svela vicende scomode e smonta accuse terribili

Per gentile concessione della Casa Editrice Stefanoni e dell’autore, pubblichiamo un’anteprima di «Il prigioniero dell’Eiger» di Giorgio Spreafico, nei prossimi giorni in libreria. Nell’estratto, Claudio Corti parla di Stefano Longhi, il compagno della cui morte è stato accusato e il cui corpo è appeso alla parete nell’indifferenza di tutti.



C’è che non interessa niente a nessuno, dài, ecco cos’è che c’è. Se ne fregano, se ne sono sempre fregati e continuano a farlo, freschi come delle rose. Di Stéven quelli di Lecco non vogliono neanche sentirne parlare, è un pezzo che l’ho capito. E’ su da un anno appeso dove l’ho lasciato, e non c’è stato un cane che è venuto a dirmi: «Ohi, Claudio, la troviamo o no la maniera di andare a riprenderlo? Te cos’è che dici?»
Hanno fatto un gran cancan quando è successo, poveretto qui e poveretto li, però te crepa se poi hanno mosso un dito. Una cosa sola hanno fatto, quella sì: se la sono presa con me, ne hanno dette d’ogni e dopo hanno girato belli larghi perché farsi vedere in giro col Claudio non andava mica bene. Uno con la peste lo trattavano meglio, ecco. Eppure non ce l’ho, la peste. E non c’ho neanche colpa se le cose sono andate nel modo che sono andate.
Glielo ripeto a tutti, ma sembra che nessuno mi ascolta. Lo so, dài: dicono ancora che stavolta ne ho ammazzati tre, Stéven e i due ragazzi tedeschi, che chissà poi la fine che hanno fatto, lo sa Dio. E rimenano il torrone del Carlo e del Felice, che loro erano in montagna con me quelle altre volte e che gli è capitato quel che gli è capitato. Però io cos’è che c’entro? Uno è venuto giù che neanche ero lì, l’altro l’ha preso un fulmine. Che balle, quelle storie. Un giornale l’ho anche denunciato, perché non è che si può scrivere qualunque cosa che a uno gli viene in testa, ma mica posso portare in tribunale tutti i tipi che hanno i sorrisetti e parlano piano, e quando arrivo io allora fanno finta che guardano da un’altra parte. [...]
Lo so che quando mi hanno tirato giù dall’Eiger è stato un miracolo. Sono stati bravi bravi, gliel’ho detto che non ero sicuro che se ero loro ci riuscivo. Quelli dei soccorsi speravano che ci trovavano tutti e invece hanno trovato solo me. Così è per quello che di andare su a prendere Stéven adesso non ne parla nessuno. Perché è diverso, tanto lui ormai è morto, e allora non sono sicuri che è giusto rischiare per andare a portar giù un morto da una bestia di parete così.
Eh, me lo chiedo anch’io, delle volte. Ma anche a lasciarlo su com’è che si fa? Questa cosa qui me lo chiedo sempre, non solo delle volte. Perché è un anno che vanno a cercarlo coi cannocchiali, su dalle terrazze degli alberghi. E quando lo trovano, gridano e chiamano gli amici: «L’ho visto, l’ho visto, guarda che è appeso alle corde... Lo vedi anche te? Lo vedi?» E quello lì non è uno schifo? Un morto non è mica uno spettacolo, bisogna avere rispetto. E’ uno porcata, dài, è una roba vergognosa. E poi c’è anche chi ci guadagna sopra dei soldi, c’è. Che porcata.
Bisogna tirarlo giù e basta, Stéven. I morti devono stare sotto terra, con i loro fiori in un vasetto davanti e magari anche con un lumino, che il fuoco a me m’ha sempre fatto pensare alla casa e alla vita. Devono avere qualcuno che arriva lì davanti in silenzio, i morti, e che dopo se ci crede prega, o sta lì e pensa alle cose che sono capitate, ai ricordi belli. Bisogna volergli bene, ai morti. Non lo so dov’è che vanno, dopo, perché non sono tanto uno di chiesa. Però ho capito che a quelli che non ci sono più puoi parlargli con il cuore, e che certe volte anche loro è come se ti parlano. Ti sembra, almeno.
Non so cosa dirgli, adesso, a Stéven. Che vado su? Che deve solamente aspettare ancora un po’? Non voglio fare un’altra promessa che poi non sono sicuro se la mantengo. Ci voleva che era qui Hellepart, eh, che se c’era allora era diverso. Lui non si fermava mica, se era uno che si fermava non veniva giù neanche a prendere me, che quando ci siamo rivisti l’ho abbracciato ancora più forte e non finivo più di dirgli grazie.
A spanne però ci vorrebbero due o tre milioni, per buttare in piedi tutto, per il materiale e per poter star su qualche giorno ad aspettare il momento buono, sempre che arriva. E ci vorrebbero un sacco di persone belle decise, proprio forti. Dieci non bastano, mi sa. Forse ne servono venti, che se poi sono di più allora è anche meglio. Dov’è che la trovo tutta quella gente lì se qui a Lecco di Stéven se ne fregano e se anche gli svizzeri non si muovono? Che se solo si mettevano subito in ballo le guide di Grindelwald, quando si è capito che avevamo dei problemi, allora magari finiva tutto in un altro modo. Io al loro posto sprofondavo. [...]

Giorgio Spreafico

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