Il racconto d'agosto
"Il gioco della finanza"/9

Liberto e un corpulento tifoso dell'Imperial Branzoni finirono in cella insieme

Quando udì la chiave girare alle sue spalle, Liberto pensò ci fosse un errore: l’omaccione dell’Imperial Branzoni era lì con lui, nella stessa cella. Picchiò i pugni sulla porta e gridò per attirare l’attenzione. «Guardia! Per favore, guardia! C’è stato un terribile sbaglio». Lo spioncino si aprì sullo sguardo accigliato del poliziotto. «Che cosa ti prende? Fattene una ragione e stai tranquillo: resterai in cella almeno fino a domattina». A Liberto importava poco di dover restare in cella, purché non fosse in compagnia di quell’abominevole Imperial-tifoso. Lo fece presente al poliziotto il quale scoppiò in una risata di scherno. «Non è un albergo, questo! Non abbiamo camere singole. Voi due teppisti dovrete condividere la cella». Lo spioncino si richiuse sulle proteste di Liberto che, rassegnato, sedette in un angolo, proprio di fronte all’avversario. La testa tra le mani, cominciò a pensare alla partita: doveva essere ormai finita e lui non sapeva il risultato! Scoprì con stupore che, per qualche strana ragione, questo contrattempo lo lasciava freddo. Si meravigliò di se stesso: c’era in ballo la promozione della sua squadra! Non solo: era in gioco anche l’onore nella sfida con l’odiata Imperial. Come poteva rimanere indifferente? Liberto cercava in sé il fuoco della passione calcistica ma non trovò che qualche brace sul punto di spegnersi. Era come se stesse rapidamente smaltendo i postumi di una sbronza e il suo cervello tornasse a funzionare. Finalmente munito di una mente lucida, dovette fare i conti con una coscienza tormentata. Le sue colpe, le sue omissioni, la sua trasandatezza: tutto tornò a galla. Il lavoro negletto, il giornale dimenticato: ogni cosa lo colpiva come uno schiaffo. Liberto Daverio-Moneta, nella sua cella al calar della sera, incominciò a pensare. Pensò a se stesso e pensò a "La Nostra Voce", il quotidiano che per anni aveva lealmente servito. Di colpo, si rese conto di quale sarebbe stato il suo destino. Capì che a fronte di tutte le sue negligenze e, soprattutto, all’ignominia di essere finito in prigione, altra possibilità il giornale non avrebbe avuto se non quella di cacciarlo. La mente di Liberto vacillò: licenziamento! Come aveva potuto essere così stolto? Come aveva potuto rovinare in poche settimane una reputazione costruita in anni? Quale demone lo aveva posseduto? Si alzò di scatto e, ad alta voce, scandì: «Il calcio!» L’omaccione alzò lo sguardo e, con sorpresa, Liberto scoprì di potercisi riflettere come in uno specchio: vide negli occhi dell’altro gli stessi suoi tormenti; vide, nelle smorfia amara delle labbra, la stessa sua afflizione. «Il calcio», sospirò l’omaccione. «Capisco cosa intende dire...» «Sul serio?», chiese Liberto. «Certo che sì. Anch’io ho avuto modo di riflettere. Che cosa ho fatto, santo cielo? In quali abissi sono caduto? Ci sarà, per noi, una possibilità di redenzione?» Liberto si inginocchiò accanto a lui e gli posò una mano sulla spalla. «Ero una persona rispettabile, io», continuava l’omaccione. «Avevo una posizione, delle responsabilità. Poi, un giorno, ho accompagnato mia nipote al campo sportivo e lì tutto è cambiato. Qualcosa si è impadronito di me, qualcosa mi ha sequestrato l’anima. Non potevo pensare ad altro che all’Imperial Branzoni, solo e soltanto Imperial Branzoni». Liberto continuava a non approvare la scelta della squadra, ma capiva benissimo il calvario dell’omaccione: ci era passato lui stesso. «Il calcio... un veleno», incominciò. «In questo, caro signore, siamo fratelli. L’oppio dello "sport" tortura le nostre povere vene e piega la nostra volontà. E pensare che il mio primo istinto era corretto. Lo "sport"? Lo detestavo con tutte le mie forze: nulla di più distante da me e dal mio lavoro. Non sapevo quanto salutare, quanto ragionevole fosse quell’atteggiamento. Poi, la tragedia: maledetto il giorno che per orgoglio ho accettato una scommessa...» Sospirò: «Ma forse...» L’omaccione lo guardò con interesse. «Continui...» «Forse si tratta di un segno, un avvertimento. Lo "sport" non fa per noi e quando usciremo di qui dovremo liberarci di questa droga che ci intossica». «Ha perfettamente ragione. Ma quando crede che ci lasceranno andare?» «Non lo so», rispose Liberto. «Forse il giudice ci vedrà domattina...» «Lo spero», disse l’omaccione. «Spero sia domattina presto, altrimenti sarò rovinato...» «Come sarebbe?» «A mezzogiorno ho una riunione di lavoro. Devo mettere la firma definitiva alla fusione della mia azienda con la Tessitura Gangini-Lepontina. È un affare segretissimo e di importanza vitale. Sono mesi e mesi che ci lavoro e non posso mancare per nessun motivo...» A questo punto l’omaccione notò in Liberto i sintomi di una leggera paresi, ma gli tese comunque la mano con cordialità. «Permette? Ingegner Girolamo Morletti, della Stamperia Morletti-Transalpe...»

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La nostra storia (disse il signor Bargilli) si conclude così con la resurrezione di Liberto Daverio-Moneta sull’orlo dell’abisso. Il mattino seguente l’imprigionamento, il giudice di turno, dopo un’adeguata ramanzina, liberò l’ingegner Morletti in tempo perché firmasse la fusione della sua azienda e Liberto perché stendesse un articolo per la seconda edizione. Lo "scoop" finì dritto in prima pagina e di lì sul tavolo dei finanzieri cittadini. Molte colazioni andarono di traverso e molti caffè furono versati sui tovaglioli di pizzo. Fu una "bomba" inaspettata che scoppiò nel cuore finanziario della città, ma per giorni e giorni ne parlò anche chi era digiuno di fusioni e assetti aziendali. Lapalla assistette senza pronunciar parola al trionfale ritorno del collega. Porfirio era un chiacchierone pieno di sé ma non del tutto un cattivo soggetto. Attese che l’eccitazione intorno a Liberto si calmasse e lo avvicinò per presentargli le sue congratulazioni. «Porfirio Lapalla sarà un asino ma è un asino che riconosce i suoi errori», incominciò. «Devo ammettere di essermi sbagliato. Caro collega, lascia che ti stringa la mano. Non sarai un esperto di "sport", ma non per questo sei meno formidabile. È un onore conoscerti e lavorare al tuo fianco. Quanto a me - concluse - con tutte le mie scommesse e le mie arie, non sarei degno di allacciarti le scarpe». Liberto, sorpreso, lo ringraziò con un cenno del capo. «Naturalmente - riprese Porfirio sottovoce - la radio è acqua passata... La farò portar via il più presto possibile. Non dovrai più preoccupartene». Fece per tornare al suo posto quando udì il collega tossicchiare. «Sì?» «Senta... stanno per incominciare le semifinali di pallamano. Forse potremmo seguirle insieme... Così, magari soltanto un pezzettino...»

Mario Schiani

(9 - fine)

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