La “Manóglia” di Van De Sfroos
Jazz e folk tra “Foglie al vento”

Recensione L’ottavo album in studio del comasco, musicalmente il più avventuroso, più che una sfida è un invito a seguire l’artista su strade nuove

Agli albori dei De Sfroos, rievocati dalla commovente reunion che celebrava i 25 anni di “Manicomi”, si parlava di punk folk, si citavano, come punti di riferimento evidenti, Pogues e Waterboys (lo stesso Davide Bernasconi raccontava che “Fisherman’s blues” di questi ultimi era stato l’album dell’illuminazione), ma anche Negresses Vertes e Mano Negra. Insomma, le radici popolari di quel suono affondavano in un terreno prettamente europeo. Ma il Van De Sfroos diventato solista da “Bréva & Tivàn” è uomo, prima ancora che artista, dai molteplici ascolti, che vanno dalla new age più serena al metal estremo.

Nel mezzo passa anche tanta musica Americana, con la A maiuscola come usa da quella parte dell’Atlantico, per definire quel miscuglio di suggestioni tradizionali e moderne sintetizzato, in primis, da quella band che era così unica da non potersi chiamare che The Band, e poi affinato, decennio dopo decennio da tanti artisti che sono sicuramente nel bagaglio culturale del cantautore lariano.

Così nel sound di “Manóglia”, ottavo album di studio dell’artista, si ritrova un po’ di “quella strana, vecchia America”, come scriveva il critico statunitense Greil Marcus per sintetizzare quello che Dylan e The Band avevano sintetizzato nello scantinato di una casa rosa, evocando fantasmi del passato. No si può sapere se un giorno qualcuno utilizzerà l’aggettivo “Lariana”, con la L maiuscola, per definire qualcosa di simile, perché in questo disco i suoni arrivano da più direzioni, mentre i testi scavano ancor più nel profondo di uno scrittore che sa essere contemporaneamente narratore, cantastorie, ma anche filosofo e financo psicologo. Dopo avere cantato gioiosamente del carnevale di Schignano, ad esempio, in uno dei suoi brani più apprezzati, eccolo che ne “La ballata del mascheraio”, che apre il lavoro, indaga il mestiere di chi intaglia quelle vere e proprie opere d’arte, per certi versi “sottraendole” al legno dove già si trovavano. Il banjo e la chitarra slide ritagliano un’immagine sonora rurale, appalachiana, con una registrazione in presa direttissima (alla fine si sente anche il rumore della caduta di un ciocco).

La prima sorpresa arriva con “Forsi”, tra jazz manouche e western swing, grazie all’apporto di un chitarrista come Denis Alessio e di un grande contrabbassista come Attilio Zanchi. Il risultato non è lontano da quello raggiunto da Ry Cooder nel suo storico “Jazz” o anche da Dylan in “Love and theft”. Per la prima volta, senza dichiararlo apertamente, Van De Sfroos propone una ballata a due facce: “Crisalide (Le ali del falco)” è pianistica, con Maurizio Fasoli che ritaglia arpeggi che non spiacerebbero a Ludovico Einaudi. L’altra faccia, “El Giuvanónn (Il becco del merlo)” arriva nella seconda facciata del disco (da preferire il vinile, magari quello colorato di verde, foglia di magnolia) ed è giocata sugli strumenti a corda. L’immaginario western non è lontano dal cuore di chi ha scritto “Il duello” e “Cau boi”. Ma ne “La canzone che non c’è” c’è (si perdoni il bisticcio) un riferimento al nostro west, a quello che Ennio Morricone ha immaginato per Sergio Leone. “Shandemé” riporta l’artista sul lato celtico dell’oceano, per toccare la Bretagna di Alan Stivell mentre Andrea Cusmano con i suoi fiati etnici regala un momento di ancestrale intensità. “Zia Nora” è la canzone più privata di questo disco. Una piccola saga familiare, con una protagonista reale, cantata da questo pronipote con infinita dolcezza, una biografia in musica che commuoverà chi segue l’artista da sempre. E “mia zia non è più mia” potrebbe essere la frase simbolo di un disco dove le canzoni sono nate per essere “solo sue” e, invece, ora sono di tutti. “Ankainköö” è una (bella) poesia sonora, tra italiano e dialetto (sì, qui c’è un che di gucciniano). E arriviamo al gran finale. Maestosa “El mekanik”, omaggio a quel folk psichedelico a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, quello del Tim Buckley che ti diceva “Goodbye” e “Hello” contemporaneamente, dispiegando le sue ali. La chiusura, come sempre, è affidata all’aria “Foglie al vento”, però, è qualcosa di più: alla fine il brano (che è il più lungo di “Manóglia” con i suoi sei minuti e più) si apre in una coda che, come ha sottolineato l’autore, tende a infinito.

Il disco più personale di Van De Sfroos dai tempi di “Akuaduulza”, musicalmente il più avventuroso, non un guanto di sfida, ma sicuramente un invito a seguirlo per strade mai battute in precedenza. Un invito da raccogliere, come le foglie di magnolia.

GLI INCONTRI

Davide Van De Sfroos attende i fan e firma copie dell’album oggi - 14 ottobre - alle 17 a Como da Frigerio dischi in via Garibaldi, domani a Lecco da Discoshop alle 15, sabato 21 ottobre a La pianola di Sondrio alle 16.

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