La meglio gioventù
caduta nel crepaccio

In un libro il dramma del battaglione "Val d'Intelvi". Il capitano erbese Majnoni: "Eravamo in 170, ma tornammo solo in 30"


di Silvia Ortoncelli

È la vigilia del 13 agosto 1918 quando il capitano Massimiliano Majnoni, comandante della 245esima compagnia del "Val d’Intelvi", si prepara con i suoi alpini alla conquista del Passo dei Segni, nel gruppo della Presanella. L’ultima estate della "Guerra bianca", scrive Majnoni nel suo "Ricordo di guerra" (riportato nel volume di Silvio Ficini, "Fra cielo e nevi eterne, forti di giovinezza e d’ardire", Gaspari editore), è «piena di combattimenti, di spostamenti e di fatiche».
E l’offensiva per il Passo dei Segni si presenta particolarmente difficile perché il nemico è difeso, oltre che da parecchie mitragliatrici, da un crepaccio di ghiaccio vivo. Sono gli ultimi fuochi della Grande Guerra, che finirà esattamente novant’anni fa: il 3 novembre nella battaglia di Vittorio Veneto l’Italia sconfigge l’Austria e il giorno dopo gli austriaci firmano l’armistizio a Villa Giusti, vicino Padova. Ma ad agosto il capitano Max Majnoni, riceve l’ordine di conquistare la posizione del Passo dei Segni, che assieme a quella del Menecigolo e delle Marocche, domina la Conca del Mandrone e limita ulteriori avanzate in Val di Genova. Quella degli alpini è ancora una volta un’impresa eroica, una battaglia sanguinosa ed estenuante. La compagnia del "Val d’Intelvi", dove erano però quasi tutti valtellinesi, viene insignita di ben 27 medaglie al valore. I riconoscimenti e gli encomi, Majnoni riceve la Medaglia d’argento al Valor Militare, non zittiscono l’amarezza per i troppi morti: «Ora ci siamo e siamo una trentina. Ecco i resti del miei 170 ragazzi, della mia bella compagnia. Che vita! Senza viveri; bombardati di continuo; lavoro da negri, senza vino. Non c’era che la forza di fare il necessario. E per tre notti, se volevo buttarmi nel sacco a pelo, dovetti scavalcare il corpo di un bellissimo guerriero nemico a cui nessuno aveva pensato di chiudere gli occhi, che continuavano a guardare l’azzurro del cielo». L’attacco e la conquista del Passo di Segni, nell’economia della Grande Guerra rimane un episodio marginale, un’operazione giudicata da più parti strategicamente inutile, eppure resta un esempio della durezza estrema della Guerra bianca. L’estremità occidentale del fronte italo-austriaco, infatti, attraversava nel mezzo due imponenti gruppi montuosi: Ortles-Cevedale e Adamello-Presanella. Una guerra alpina, combattuta su posizioni di roccia e ghiaccio ad oltre tremila metri di quota, in condizioni ambientali e climatiche difficilissime. Battezzato dalla Guerra bianca, il marchese Massimiliano Majnoni d’Intignano, «si era arruolato volontario nella prima guerra mondiale - racconta il figlio Stefano - spinto da ideali irredentisti, ma per niente nazionalisti. La sua formazione era liberal-risorgimentale segnata da una forte fedeltà alla monarchia e da un originale sentimento cristiano. Sentimento che gli permise di avere al fronte un bellissimo rapporto di fratellanza con i suoi alpini». A marzo del 1919, il capitano Max Majnoni viene destinato alla segreteria del capo della Missione militare italiana a Versailles, dove conosce e frequenta il giovane tenente Suckert, poi divenuto famoso scrittore col nome di Curzio Malaparte. Fra i due non ci fu mai grande intesa, il libro di Silvio Ficini "Fra cielo e nevi eterne, forti di giovinezza e d’ardire" riporta il carteggio fra i due.
Le lettere di Malaparte sono, solo per pretesto, dei dispacci da Vienna, Varsavia e Roma. Sono, in realtà, polemiche prese di posizione sulla società dei Paesi nei quali era stato inviato, filtrati dall’interesse che andava maturando, per il comunismo e la rivoluzione. E non manca di arricchire la missiva di qualche frecciata alla "spina dorsale" del capitano Majnoni. La vis polemica di Malaparte non trova terreno adatto nella dignità, fedele alla tradizione, del marchese: «Mio padre - ricorda Stefano Majnoni - non amava Malaparte, ma era un sentimento reciproco. C’era comunque una grande curiosità fra i due: Malaparte riconosceva l’alta qualità umana di mio padre, il quale, dal canto suo, avvertiva nel giovane tenente l’uomo d’ingegno. Ricordo una battuta sul suo conto: "Fa onore al suo nome. Si chiama Suckert, galleggia come un sughero!"». Dopo il congedo l’ex capitano Majnoni entra alla Banca Commerciale Italiana e viene presto trasferito alla direzione della filiale di Como. Si sposta con tutta la famiglia, la moglie Marcella Guicciardini e i due figli Stefano e Francesco, a Erba. Racconta il figlio Stefano: «Non amava particolarmente la vita di banca, anche se ne uscì ancora giovane, a 52 anni, da direttore centrale. È stato collaboratore e amico di Raffaele Mattioli». Antifascista, dal 1935 al 1947, Massimiliano Majnoni resse la rappresentanza di Roma della Comit, snodo dell’antifascismo militante tra il 1943 e il 1945. Quanto agli anni erbesi, il figlio Stefano li ricorda "Come un Eldorado": «Quello trascorso ad Erba fu per me un periodo di grande felicità, erano gli anni dell’infanzia. E ci torno molto volentieri».

© RIPRODUZIONE RISERVATA