La versione "comasca"
delle "Fronde dei salici"

L'italianista Vincenzo Guarracino ha ritrovato, su una rivista comasca, la prima edizione della celebre poesia di Quasimodo: fu pubblicata nel '45 (mentre la versione su libro è del '47) e con una variante significativa

di Vincenzo Guarracino

È una storia già da me altre volte raccontata e tale da poterci insegnare ancora qualcosa, a tutti e in particolare agli "intellettuali" (si può ancora dire così?). Forse più di ieri, visti i grami tempi che viviamo, tra meschine beghe di potere, da un lato, e un serpeggiante scetticismo e disimpegno, dall’altra. La storia di un cenacolo animoso di "uomini di lettere", che in anni davvero cruciali, nel pieno della guerra e in Como, città tutt’altro che fuori dalla mischia, trova una specola privilegiata per guardare alla società con un’ottica nient’affatto rinunciataria: l’avventura intellettuale di un manipolo di individui protesi a contrastare "la perdita di charitas" intervenuta con il conflitto, lo "smarrimento totale dei rapporti", a partire da una realtà di macerie. In un tempo di orrore e di "miserabile avarizia", per dirla con Unamuno, si ritrovano sulle pagine di una rivista, "Uomo", edita dalle Edizioni dell’Ulivo con cadenza irregolare a Como, presso la Libreria La Lampada, in viale Lecco, 11, tra il novembre del ’43 e il dicembre del ’45, prima di trasferirsi negli ultimi mesi di vita a Milano.
Un gruppo forte della fede nella forza "viva" della parola e determinato a sfidare con strumenti "umani", col pensiero e la poesia, il clima di paura e di conformismo che opprime le coscienze («Non si può pensare di restare continuamente fuori dei rapporti», si dice nell’editoriale d’apertura), sulla scorta anche di una "regia" morale e religiosa che solo più tardi apparirà esplicitamente quando ai due volumi delle sue poesie, "Lo scandalo della speranza" (Gei, Milano 1984), padre Turoldo apporrà la dedica agli Amici de L’Uomo, i primi cui fanno grappolo gli altri». I loro nomi? Gente forse già nota o in via di diventarlo, destinata a segnare nei decenni successivi cultura e coscienza nazionale: Marco Valsecchi, Oreste Del Buono, Primo Mazzolari, Domenico Porzio, Dino Buzzati, Antonio Banfi, Giuliano Gramigna, Carlo Bo, Luciano Anceschi, Sergio Solmi, Gio Ponti. E soprattutto Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo. Il primo è presente addirittura già nell’esergo dell’editoriale inaugurale di Marco Valsecchi, "Nostra inquietudine", sul numero del novembre ’43, il primo dei 9 complessivi della rivista, («Troppo / straziato è il bosco umano, troppo sorda / quella voce perenne», da "Personae separatae", in "Finisterre", edito qualche mese prima a Lugano nella collezione diretta da Pino Bernasconi) e più avanti, sul numero di giugno del ’45, con "Motivo", traduzione del sonetto XXV di Shakespeare (con notevoli varianti rispetto al testo compreso in "L’Opera in versi", a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Einaudi, 1980, dove questo sonetto non è neppure citato come fonte). Il secondo, Salvatore Quasimodo, compare con testi poetici e traduzioni, la cui importanza nella sua opera è rivelata anche dai soli titoli: "Apparizione di Iftime a Penelope" (dall’Odissea, IV, 795-841, ottobre ’44), "L’ora della tristezza" (dal "Vangelo di Giovanni", febbraio ’45), 19 gennaio 1944 e "Alle fronde dei salici" (giugno ’45), "Lettera" (settembre ’45). A conferma poi della sua contiguità morale con le ragioni del gruppo, ecco anche la traduzione dei "Carmi" di Catullo, annunciata come novità in uscita delle «Edizioni di Uomo» sull’ultimo numero. «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, / tra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo...»: è il notissimo Alle fronde dei salici, composto «alla fine dell’inverno del ’44» (lo dice in una nota lo stesso poeta) e posto poi in apertura della raccolta "Giorno dopo giorno" del ’47, e qui presente nella prima lezione, forte, asseverativa, senza il punto di domanda (ignota forse anche a Gilberto Finzi, curatore del Meridiano del ’71), a riprova di un atteggiamento di fermo sgomento di fronte all’orrore, che non accampa retoriche giustificazioni e reclama assunzioni precise di responsabilità. Una lezione perfettamente consonante con lo spirito della rivista, ribadito da Valsecchi sullo stesso numero nel rifiuto di un «rigido atteggiamento di autodifesa che spinge a isolarsi man mano dalla vita»: la cultura «nata dall’uomo, non può far a meno di dirigersi all’uomo come a suo spontaneo fine e da qui deriva la sua naturale socialità». «Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese...»: "per voto", come dire comprese della funzione morale e civile della poesia, del suo valore quasi religioso di fronte alle urgenze della storia e delle sue responsabilità nei confronti della collettività, per "il bene di tutti". Consapevoli di poter contrastare solo così, con una controllata tensione espressiva e al tempo stesso un esplicito richiamo a un patrimonio di immagini di nobile ascendenza biblica, come gli unici antidoti alla barbarie, il «senso di abbandono, di silenzio, di morte» che occupa la scena del periodo di più straziato orrore della nostra storia.

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