L'ex provveditore e la poesia
Pisani compone il bilancio di una vita

Amore, morte e fede in Dio nella raccolta "De Senectute et ultra"

Il titolo della più recente raccolta di poesie di Lucio Pisani non lascia dubbi fin dal titolo di severa formulazione latina, De Senectute et ultra (LietoColle, 70 pag., 13 euro). Senectute, l’estrema stagione della vita, è indicata con la maiuscola, in segno certo di rispetto ma non senza una punta di ironica consapevolezza del rarefarsi di amicizie, del rinchiudersi di prospettive d’azione ed anche di comunicazione con gli altri. Lo dice in una poesia ancora inedita, «a vederci e a contarci/siamo in meno e diversi». Ma non è fatto solo di ombre, questo percorso poetico che Federico Roncoroni nell’introduzione definisce "poemetto" per la compattezza del dettato, la consequenzialità delle immagini tutte rivolte a cercare un senso alle cose, alla gente, agli affetti, alle conquiste e alle delusioni. Insomma, a tutta l’esistenza ripercorsa in intensi attimi di meditazione, che si fa più accorata ma anche più umanamente condivisibile quando tende la mano nell’addio.
Certo è la memoria che domina il campo di questa sorte di pubblica confessione, di consegna di sé. Una memoria non però ricostruita a tavolino con l’intento di renderla un prodotto letterario. L’autore ha rinunciato all’articolata complessità di scrittura aforistica che ha contrassegnato la prima parte della sua opera, traendone oggi un distillato di sapienza linguistica, una effusa musicalità espressiva di immediato rapporto con il lettore: al quale l’autore si apparenta senza più distinguersi, ed è qui il vero segreto della piena comunicatività di questo approdo poetico. A proposito di musicalità, che si cela nell’andamento dei versi con discrete, sommesse assonanze, Guido Zavanone nella postfazione ha scoperto una possibile ascendenza di pretta origine lariana: la costante presenza del lago, un «cielo d’acqua», con la «sua memoria ondivaga», «ansito che si spegne alla riva e poi ritorna». Il lago come specchio, ancora una volta, di motivazioni interiori, per le quali abbiano rivolto a Pisani alcune domande.
Pisani, considera questo diario in poesia un commiato, o un bilancio?
Lo considero più un commiato, perché il bilancio è sempre provvisorio, non ne abbiamo uno definitivo. Anche questo commiato potrebbe essere ritenuto provvisorio, mentre io lo ritengo definitivo. Cambiamo spesso giudizio… Per esempio, un tempo abbiamo giudicato positivo il maestro unico nella scuola elementare ma poi ha avuto una corrente ideologica che l’ha portato alla proliferazione di insegnanti: e ora si ritorna alla soluzione primitiva.
Le poesie raccolte nel libro sono state composte nell’arco di almeno dieci anni: perché questa scelta?
In questo libro ho voluto raccogliere un percorso che non è soltanto esistenziale ma lo sviluppo di un linguaggio che rappresenta la realtà come io l’ho vissuta e come la ripenso, la rivisito oggi".
La scrittura però è cambiata nel corso degli anni, ha in parte abbandonato l’iniziale sviluppo di pensiero, quasi una filosofia in versi.
È vero, la mia indole è sempre stata portata verso manifestazioni di pensiero, se vuoi di filosofia,  mentre oggi prediligo la parola, anche perché la parola stessa spesso stimola il pensiero, crea il pensiero nelle provocazioni giorno per giorno. In realtà la filosofia ha delle eredità culturali che appartengono poco alla gente, più teoria che vita quotidiana. Invece la parola ti dà il senso dell’umanità che ti circonda, della realtà, del vero significato del nostro essere nel mondo.
L’uso più libero della parola l’ha portata ad un colloquio intimo con se stesso ed a condividerlo con gli altri?
Molto spesso identifichiamo la nostra esistenza con la funzione che esercitiamo, specialmente se si tratta di una funzione di responsabilità, se non di supremazia. È difficile tornare a condividere soltanto ciò che ognuno vive giorno dopo giorno. Oggi mi sento uno dei tanti, accomunato a loro dalla sorte, e non mi identifico solo col mio nome, cognome e magari il titolo di studio.
La sorte la intende racchiusa nell’itinerario dell’esistenza, non crede che possa prolungarsi in un aldilà?
Io mi sono sempre considerato fortemente laico, l’uso della ragione mi porta a dubitare di un continuum. Ma la speranza resta. E credo che ci sia pure in coloro che più la negano. Dissi una volta ad un credente: lei è fortunato, se ci vedessimo nell’aldilà lei potrebbe dirmi che aveva ragione, mentre io non potrei prendermi nemmeno questa soddisfazione.
Una sua poesia è tuttavia intitolata proprio «Al di là», dove descrivi una visione di un’angelica suonatrice di trombone che ti faceva cenno «alla soglia che separava la luce del buio»…
Sono certo stato influenzato dall’iconografia tradizionale dell’angelismo, però ho immaginato un  angelo donna. Per due motivi: la figura centrale del mondo, il suo motore, è la donna. Poi perché mi porto dietro un’eredità, una dote di affetto che mi deriva da una donna in particolare: mia madre.
Ed ecco riaffiorare i ricordi. Una memoria di sentimento, non di pensiero…
Mia madre non era una donna colta, non poteva offrire altro che amore. E nelle più importanti scelte della mia vita l’amore, in tutte le sue valenze, ha sempre avuto il primo posto.
Questo è un modo di essere debitore del cristianesimo, non ti sembra?
Ebbene, forse sì.
Alberto Longatti

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