Lucini, poeta da riscoprire
L’archivio e la passeggiata

Era malato e storpio, ma dalle carte custodite dalla biblioteca di Como emerge un battagliero precursore delle avanguardie novecentesche. Il 30 settembre un percorso poetico nei suoi luoghi a Breglia per chiudere il 150° della nascita

Il 30 settembre 2017 si è aperto il 150° della nascita di Gian Pietro Lucini e nella stessa data del 2018, domenica prossima, si concluderà con una passeggiata sulle sue orme a Breglia, frazione di Plesio (sopra Menaggio sul lago di Como), dove il poeta milanese visse a lungo e morì soli 46 anni il 13 luglio 1914. Si intitola “Le anime feminili delle fonti” la passeggiata creativa promossa da Sentiero dei Sogni con Acqua Chiarella. Pietro Berra sarà la voce narrante durante il percorso. Intervento di Chiara Milani, responsabile scientifica della Biblioteca di Como (che nell’articolo qui sotto spiega l’importanza di Lucini e del suo archivio custodito a Como). Letture, di testi di Lucini e propri, dei poeti Tomaso Kemeny, Amos Mattio e Paola Pennecchi della Casa della Poesia di Milano. Iscrizioni al link http://lucini.eventbrite.it

Gian Pietro Lucini. 1902. Deforme come Socrate ed Esopo, ne ebbe il genio. Nessun animo più euritmico del suo, nessuna mente più squisitamente colta. Mirava a fondere in una sola armonia il trionfo della individualità personale con quello della universale fraternità. La sua poesia era verità, la sua anarchia, onestà. Pochi lo compresero: gli mancò l’arte del ciarlatano».

È questo il ritratto dell’amico Gian Pietro Lucini che Carlo Dossi, scrittore, diplomatico, ministro del governo Crispi compose e fece incidere in una colonna del Portico dell’Amicizia nella sua villa “Il Dosso” che da Cardina sovrasta Como. È il ritratto perfetto del colto poeta filosofo, critico d’arte, pensatore politico militante e pubblicista, anticipatore di temi cari al Novecento che riconosce il debito culturale alla classicità e cerca germogli di giustizia sociale negli slanci migliori di quel Risorgimento, che fu capace di fare di molte realtà una nazione. Il padre di Gian Pietro combatté con Garibaldi, il clima della casa paterna era ancora vivo in coloro che il poeta conobbe da bambino e ragazzo, patrioti che non avevano perduto lo slancio e gli ideali giovanili. Alla figura di Lucini verrà dedicata domenica 30 settembre una passeggiata creativa nella “sua” Breglia, sopra Menaggio (info nella scheda a lato).

Apprezzato da Sanguineti

Davvero riuscita, l’epigrafe del “nostro Gian Pietro” come è chiamato oggi lo incontra attraverso i suoi libri, con la riconoscenza che si tributa a una persona speciale e famigliare, a un testimone del proprio tempo onesto fino allo spasimo. Escluso o appena citato nelle antologie ma apprezzato da poeti e critici come Edoardo Sanguineti che nel 1974 curò una nuova edizione di “Revolverate”, il libro di poesie più militante di Lucini, uscito nel 1909 per le edizioni di Poesia di Filippo Tommaso Marinetti dopo un fitto scambio epistolare tra i due, che si accapigliarono perfino sul titolo.

Fu Marinetti a mettere la parola fine alla discussione con la una breve ma decisa lettera che riporto: «No! No! Hai assolutamente torto! Siamo tutti d’accordo, Notari, Cinti ed io, a trovare sbagliato e soprattutto infelice il titolo: Bombarde! mentre quello già scelto: Revolverate, ci sembra ancora preferibile a qualunque altro, da ogni punto di vista... Dunque, resta inteso: Revolverate... e non pensare ad altro, se non vuoi buscartene una dal tuo editore! Ti raccomando di nuovo di mandarmi prestissimo il medaglione di Dossi. Non ho ancora visto Agazzi. Lo aspetto. Saluti affettuosissimi da tutti noi. Tuo F.T. Marinetti».

Marinetti, comunicatore geniale, coglie e valorizza gli elementi di novità della scrittura di Lucini esaltando il messaggio della sua poesia militante. Nella lettera il poeta futurista cita Decio Cinti, suo segretario, lo scrittore Umberto Notari collaboratore della rivista “Poesia”, il pittore Carlo Agazzi e Carlo Dossi: in poche righe troviamo un piccolo, ma significativo frammento della società culturale tra Otto e Novecento e dei suoi fermenti. Società ormai divisa su molti argomenti che mentre anelava a un mondo migliore correva verso la catastrofe della Grande Guerra, della quale Lucini non vide l’inizio perché morì il 13 luglio del 1914, una manciata di giorni prima dell’attentato di Sarajevo.

In questo stesso anno Lucini pubblicò la sua ultima opera, un saggio composito nel quale il poeta raccoglie la summa delle riflessioni di una vita, un libro progettato intorno alla figura di un maestro molto amato e stimato: Il filosofo Giulio Lazzarini. Il libro, edito dalla casa editrice Libreria Politica Moderna di Roma, si intitolava “Filosofi ultimi” ed è il testamento spirituale di un uomo che credeva nella dignità e sacralità della persona da garantire contro ogni prevaricazione e prepotenza; credeva nella ragione, la qualità più importante dell’uomo che non ha ancora compreso le potenzialità di questo strumento divino. Per la sua filosofia, razionale e passionale insieme, coniò il termine di «sincerismo critico» e con essa propose un messaggio di forte coerenza etica. I suoi filosofi ultimi non sono solo coloro che inciampano nelle orme dei grandi, gli imitatori che non si accorgono di essere al ciglio della fine di un’epoca. Sono anche gli ultimi veri filosofi che nel proprio tempo hanno qualcosa di veramente importante da dire, primi per la forza del pensiero e primi filosofi dell’Italia unita, come Carlo Cattaneo, Bovio e Lazzarini. Pensatori da contrapporre alle filosofie in voga. Tra queste il pragmatismo, insieme al positivismo sistemi delle “magnifiche sorti e progressive” delle quali Lucini colse lucidamente i limiti.

Nell’archivio Lucini custodito alla Biblioteca comunale di Como ci sono le testimonianze dei riscontri dati al libro. Tra queste il biglietto di Prezzolini che ringrazia Lucini con queste parole: «Caro Lucini, grazie per il volume che leggerò. Prevedo che non saremo d’accordo ma non importa».

Battagliava con tutti, il «nostro Gian Pietro», e anche coloro che non condividevano le sue posizioni gli riconoscevano la capacità di discutere apertamente, la coerenza opinioni: un buttarsi nel vivo delle discussioni più animate con grande coraggio come se, impedito nel corpo dalla grave malattia invalidante che lo portò presto alla morte, avesse trasfuso nella mente una straordinaria vitalità.

Incontrare Lucini oggi attraverso la lettura dei suoi libri non è facile, ma è sicuramente stimolante. Nella prosa, come nella poesia, Lucini fa emergere le contraddizioni dei suoi tempi, nella continua ricerca di una forma di scrittura coerente con il messaggio civile. Come ci dice la critica, nella poesia questa forma era per Lucini “il verso libero”, mentre l’uomo emerge grazie alla carte d’archivio che la moglie Giuditta Cattaneo ha custodito nella casa di Breglia dopo la morte del poeta, difendendole dalle incursioni di coloro che con il pretesto di studiare carte e inediti provavano a sottrarre ciò che potevano. Giuditta, una donna semplice sposata da Gian Pietro contro la volontà della madre (e a motivo di questo matrimonio i rapporti tra madre e figlio furono sempre tesissimi) prima di cedere completamente l’archivio, vendette tutto: dai dipinti ai mobili di famiglia e parte della biblioteca. Per l’archivio fece la scelta migliore e più opportuna. Aiutata sempre nelle trattative di vendita dei beni famigliari da Terenzio Grandi, a lui cedette l’archivio poco alla volta. La donna sapeva che il Grandi, editore repubblicano e amico di Lucini, non avrebbe disperso le carte del poeta, perché ne riconosceva l’importanza e il valore.

Così avvenne. Ma la sua premura nulla valse contro i bombardamenti su Torino della Seconda Guerra mondiale che provocarono un incendio nello stabilimento tipografico di Grandi. Eppure, una parte dell’archivio si salvò: si tratta di documenti ora raccolti in 90 faldoni, sopravvissuti perché erano tra le cose che Grandi aveva iniziato ad evacuare da Tornio per sottrarle ai bombardamenti. Archivio che contiene la testimonianza della “strana e lacustre amicizia” con Carlo Dossi, come ha definito il sodalizio tra i due che non potevano apparire più diversi, Niccolò Reverdini, attento studioso del Dossi.

L’amore per il lago

Breglia, frazione sopra Menaggio, era il luogo del cuore di Lucini, dove si ritirò definitivamente conscio dell’avvicinarsi della fine. Amava l’acqua, il nostro poeta. Le poche fotografie in cui sorride, lo colgono in barca a vela in compagnia di amici: sul lago di Como e nel mare di fronte a Varazze: luoghi d’acqua dai colori simili, dalla gente affine.

Dalla casa di Breglia poteva raggiungere in barca il suo amico Dossi e stemperare nell’amicizia e con ironia l’indole drammatica, tenendo a freno gli assalti del dolore. Dossi si spense nel 1911 e Lucini ne fu disperato. A quest’uomo profondamente onesto, cui «mancò l’arte del ciarlatano», non venne mai la voglia di vivere e lottare. Desiderio furibondo e lucido nelle ultime parole, vergate in un semplice biglietto a pochi giorni dalla morte: «Vivere, vivere, vivere! Quante lacrime, ahimé, per amare la gioia e quanti odio feroce per amare l’amore; quanto sangue versato per amare questa divina Umanità inquieta; e morti, oh quante! per amare la vita. Comunque, vivere e vivere sempre!». Un inno alla vita e all’amore da Breglia, sul lago di Como.

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