Parolario, gli incontri del 7 settembre
La moglie di Terzani chiude la rassegna

Angela Staude presenta il libro postumo del marito, grande inviato speciale, dedicato alla Cambogia e alle stragi delle feroci truppe di Khmer rossi

Incisiva ma non polemica, realista ma senza calcare la mano. Angela Staude Terzani, autrice di libri di viaggio, è stata la compagna di Tiziano Terzani dall’età di diciotto anni, seguendolo in ogni suo spostamento professionale. Vedova del giornalista e curatrice del libro postumo "Fantasmi - Dispacci dalla Cambogia" (Longanesi), in cui sono raccolti i reportage del marito dal paese asiatico, racconta che, durante il fanatico regime di Pol Pot, in Terzani (Firenze, 1938 - 2004) naufragarono i valori della rivoluzione.
Di fronte alle stragi delle feroci truppe dei Khmer rossi, atterrito dallo sterminio di quasi due milioni di esseri umani, l’inviato di guerra sentì spegnersi le sue ideologie: «Tiziano non ha più creduto nell’effetto terapeutico della rivoluzione. Dopo la Cambogia il suo atteggiamento verso la politica come strumento per portare, se non la pace, un certo ordine e una certa giustizia tra i popoli, è mutato, fino a condurlo nella solitudine dell’Himalaia». Angela Staude Terzani sarà alle 17 a Parolario.
Cosa lo disgustò della Cambogia?
Il regime di Pol Pot è l’esempio ideale. Tiziano si occupò anche delle vicende cinesi, di tutto il Sud est asiatico, del Vietnam e del Giappone, ma solo la successione dei tragici eventi cambogiani lo coinvolse totalmente. Da giovane inviato, arrivato dall’Europa pieno di speranze per una guerra di liberazione prima dai francesi poi dagli americani, sperava nella vittoria dei cambogiani. Un grande malinteso: in realtà i Khmer rossi, partigiani che si ispiravano vagamente a un’ideologia marxista, erano fanatici che, appena preso il potere, uccisero un terzo della popolazione.
Da lì la disillusione?
Sì, da allora Tiziano iniziò a non credere più della rivoluzione come idea per cambiare il mondo. Dopo la Cambogia andammo in Cina, dove era appena finita la rivoluzione culturale che aveva fatto altre decine di milioni di morti per mano di Mao. Nel 1985, dopo aver visto un famoso film sulla guerra in Cambogia, "Le urla del silenzio", Tiziano scrisse un articolo in cui affermò: «Ci eravamo sbagliati nel credere che le rivoluzioni potessero raddrizzare le cose».
Cosa significò per lei questa presa di coscienza?
Fu uno dei momenti chiave della nostra vita comune, perché Tiziano dovette rinunciare a una convinzione che aveva sin da ragazzo. Nell’introduzione a questo libro racconto la nostra esperienza in Asia per quasi trent’anni, cercando di seguire Tiziano nel privato: le sue idee personali e le sue reazioni a ciò che osservava nel mondo. In Cambogia più che mai.
Perché?
La storia del Paese si intreccia continuamente con quella di Usa, Urss e Cina nella seconda metà del Novecento. Allora la Cambogia non era che una pedina di enormi giochi internazionali che, rivisti con spirito critico, diventano illuminanti.
Il libro come diario delle disillusioni?
Purtroppo sì. Tiziano non era mai stato in Cambogia: d’impatto la trovò bellissima. Anch’io fui subito conquistata da questo Paese tropicale che sembrava la Provenza o la Toscana: l’ordine delle palme e delle risaie donava al paesaggio una sorta di perfezione geometrica, che sembrava rispecchiare l’anima stessa degli abitanti. Un paradiso poi teatro di un’immensa tragedia, la cui fase finale incluse il più massiccio intervento dell’Onu mai autorizzato.
Perché lo considera parte della tragedia?
Nonostante l’intento dell’Onu fosse riportare la pace sociale, i ventiduemila strapagati funzionari traumatizzarono i cambogiani: con i loro soldi diffusero l’uso della droga e incrementarono la prostituzione. Oggi la Cambogia è forse uno dei pochi Paesi del Sud est asiatico che non riesce a risollevarsi dalle catastrofi vissute.
Il più grande rimpianto di suo marito sulla Cambogia?
Brutalizzata dalla troppa sofferenza, la popolazione aveva smarrito cultura e civiltà di un Paese molto antico, un tempo bellissimo e ordinato, ripiombando in uno stato primitivo: alla fine, forse, il vero rimpianto di Tiziano era che la «rivoluzione» avesse distrutto questo mondo.

Francesco Mannoni

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«Con l’enigmistica? Non si finisce mai di imparare. Le parole crociate poi sono in evoluzione continua, per loro stessa natura». Fidatevi di Stefano Bartezzaghi, oggi a Parolario (18.30 in piazza Cavour), con il suo libro "L’orizzonte verticale.Invenzione e storia del cruciverba", sua passione, oltreché professione. Per inventarne uno di media grandezza, lo scrittore ed enigmista impiega «dalle due ore in su».

Si diverte?
Da morire, anche quando mi perdo. Per un articolo so, più o meno, quanto impiego. Con i cruciverba, oltre che esperienza, serve fortuna. Chi lo risolve sa che esiste una soluzione, l’autore no: deve trovarla. Questo è il rebus... Ieri mi sono accorto di un errore. Ed ero punto e a capo.
Perché l’enigmistica è un gioco colto e intelligente?
Quest’arte è la sintesi di contenuti letterari, mistici ed esoterici di secoli e secoli di storia. Sfide ingegnose, da affrontare con spirito da "bricoleur": per vincerle aiutano mente logica e buon bagaglio culturale.Soprattutto per i cruciverba: se alcune definizioni sono obbligate, lo schema si rinnova continuamente, grazie a fatti e personaggi d’attualità e alla lingua in continua evoluzione. Nazionalpopolare e alfabetizzante ma, al contrario della tv, mai stupida.
Proprio così. Non occorrono lauree né pezzi di carta appesi per cimentarsi nell’enigmistica, in origine indovinelli di tradizione popolare, nobilitati in giochi da salotto nella Francia del ’700. Poi, nell’800, soprattutto inItalia, ingrediente di riviste e almanacchi. Ogni buon giornale di enigmistica offre diversi livelli di difficoltà su cui cimentarsi liberamente, senza l’ansia da interrogazione.

Barbara Ciolli

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Dino Risi, un "mostro" del cinema
Omaggio per chiudere in bellezza

Bei tempi quelli in cui il cinema “alto” era appannaggio dei Fellini, degli Antonioni, dei Ferreri. Bei tempi, perché il cinema “basso”, quello di intrattenimento poteva vantare le firme illustri di sceneggiatori esperti come Age, Scarpelli e Scola e la guida di registi del calibro di Mario Monicelli e Dino Risi. La scomparsa di quest’ultimo ha privato la scena non solo di un grande cineasta ma anche di un lucido, ironico, talvolta cinico osservatore della realtà, attraverso i libri, negli ultimi anni. E se ai suoi esordi si registrano titoli leggerissimi come «Pane, amore e...» o «Poveri ma belli», lo scatto arriva con «Una vita difficile», «Il sorpasso» e «I mostri»: basterebbero questi tre titoli che tutti, si spera, hanno visto per rendere giustizia a questo grande padre della "commedia all’italiana”. Nella prima pellicola, girata anche dalle nostre parti quando si tratta di seguire le gesta di Alberto Sordi, irriducibile partigiano, gli echi dei suoi trascorsi comaschi (tra l’altro era cugino di secondo grado di Carla Porta Musa) prima di dedicarsi alla settima arte. La dedica di Parolario arriverà, oggi, grazie a Mario Bianchi, alle 22.30 al caffè letterario di piazza Cavour: si intitola «Dino Risi, un mostro di cinema», un montaggio di momenti salienti delle sue pellicole più significative.

Alessio Brunialti

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