Parole che nascondono
le nostre radici profonde

Quante verità sepolte nel dialetto lombardo. Lo scrittore Emilio Magni ha condotto uno "scavo" accurato nell'area della Brianza, con tante sorprese. Ne parla in "Ciumbia, che béla tusa" (Mursia), in libreria dal 12 novembre

«Ciumbia, che bèla tusa» (Mursia), da mercoledì in libreria, sarà presentato a Erba (Co), la sera del 28 novembre, in Comune. Interverrà anche il direttore de La Provincia Giorgio Gandola. Qui pubblichiamo l’introduzione, per gentile concessione di Mursia. A sinistra: ragazza di montagna dipinta da Segantini.

di Emilio Magni

È bello, quando si può, vagabondare nelle infinite lande senza sentieri e senza confini, delle "millanta" parole di cui è generoso il nostro saporito dialetto lombardo, che può essere pure chiamato insubrico. Pur con tante variazioni di accenti, inflessioni e intonazioni la parlata vernacola che ha il suo cuore a Milano, vaga infatti disinvoltamente per tutte le valli della fascia pedemontana tra l’Adda e il Sesia, chiamata Regio Insubrica in cui l’acqua scivola, dirompente prima , poi sempre più lenta, verso il padre Po. Si possono scoprire tanti piaceri linguistici "alla buona", ma assai sagaci, in questo amabile e schietto parlare che fu del Porta, di Delio Tessa, di Franco Loi, di altri grandi poeti dialettali meneghini, ma che ancora, pur con qualche acrobazia, si può ascoltare da quella gente che non si sente troppo "scì scì": come direbbe Giuan Brera. È appassionante, porta addirittura a qualche emozione, trovarsi ad ascoltare o a leggere parole che o si pronunciano come sono o non si pronunciano affatto. Hanno, questi termini propri del dialetto, un significato ben preciso che è impossibile addirittura ritrovarlo nel pur vasto vocabolario della lingua italiana. Magari capita di scovare alcuni vocaboli vernacoli che qualche riferimento con l’italiano c’e l’hanno. Quando, però, sono traslati in italiano quel loro significato ben chiaro va inesorabilmente a stemperarsi. Addirittura taluni perdono di significato. Prendiamo per esempio la parola "andadura", che viene evidentemente dall’italiano "andare". Ma se traduciamo "andadura" in italiano potrebbe venire "andatura", ovvero il modo di camminare di una persona. Ma non è questo il significato vero dell’"andadura", termine dialettale. In Brianza, nel Milanese, in tante altre terre, lande e vallate prealpine e insubriche i contadini di un tempo usavano "l’andadura" per far imparare ai bambini piccoli a camminare, cioè ad andare. L’infante era infilato nel buco di un asse quadrato che scorreva, tramite guide, su sue pali. Poteva così camminare, avanti e indietro a suo piacimento senza correre alcun pericolo di cadere. Per spiegare tutto questo in italiano occorre almeno una dozzina di parole. Per dirla in dialetto ne basta una: "andadura". E più chiaro di così proprio non si può. Questa è la grande forza del dialetto che talvolta permette davvero una sintesi estrema del pensiero. Una dei tanti altri vocaboli del dialetto che contendono di esprimere un concetto, o indicare una cosa con sintetica semplicità è "tegasc" che è l’acino dell’uva. Quelli che parlano moderno potrebbero adoperare il termine poco bello di "contenitore", per dare una definizione odierna all’arcaico e vernacolo "tegàsc", che per i contadini era la pelle dell’acino d’uva: "pinciröö"in dialetto milanese, comasco e brianzolo. L’origine di "tegàsc" sarebbe dunque addirittura latina, secondo Francesco Cherubini. Potrebbe, infatti, arrivare da "tegumentum" che vuol dire coperta, riparo, rivestimento. Il "tegàsc" riporta dunque al mondo contadino, alle vendemmie, alle storie legate a lontane stagioni del mondo rurale. Non ha un corrispettivo nemmeno il vocabolo "filipa", la cui origine è misteriosa. La "filipa" era quel gancio di ferro legato alla cintola dei calzoni ed al quale contadini e soprattutto i boscaioli appendevano la falce corta, in dialetto "curlasc", altro termine che è solo nel dialetto e il cui etimo è altrettanto misterioso di quello di "filipa". Potremmo continuare ancora a lungo "tirando qua" dal bel lessico dialettale tante parole che, accarezzando con disinvoltura quella qualità del dialetto di arrivare alla sintesi di un pensiero con una sola parola, potremmo definire vergini. Infatti la verginità è una cosa assoluta che c’è, o non c’è. Non ci sono vie di mezzo. Ed è così per queste parole come "andatura", "scurléra", "rebelott", "gurguan", "barlafuss", "filipa" . O si pronunciano così come sono nel dialetto, o si "lascia stare" di dirle.

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