Piero Gauli: <L'arte mi ha salvato la vita>

Palazzo Reale, a Milano, e la Val d'Intelvi celebrano l'opera del pittore comasco, 92 anni
Collega di Treccani e Sassu, rievoca gli anni della prigionia e l'amicizia con Sciascia

C’è la coda davanti la bottega-laboratorio della vecchia casa di Verna (Co),tanti visitatori che chiedono di poter incontrare  l’anziano maestro. Piero Gauli con le mani sporche, intrise dei colori dei pennelli dispensa autografi sui cataloghi appena acquistati. Domanda che giorno è oggi. Sorride e chiede: «Come ti chiami? Avete tutti  nomi difficili - dice -. È dal 1936 che firmo autografi». E non si è ancora stancato a  92 anni? «Un artista non è mai stanco. Sono figlio dei Magistri Intelvesi. Un grande dono di geni che non si  da dove  provengono né quando si manifestano».
Precoce come i suoi antenati? Quando si è accorto di possedere la vena artistica?
Per un sette in condotta al liceo sono finito in un collegio a Torino. In quel nuovo ambiente ho scoperto tante cose e prima di ogni cosa l’amore per l’arte, componenente primaria del mio Dna. La scuola era una raccolta di rifiuti, spazzatura dell’intelligenza , persone importanti , figli di persone importanti. Un luogo di "castigati" da quella che era l’ambizione familiare  giusta, giovani che ancora  non avevano capito che la via principale della loro esistenza e della formazione  era quella della cultura. E i giovani, oggi come allora, questo non lo capiscono immediatamente.
Come fu il suo incontro con Sciascia in Sicilia?
Avevamo lo stesso carattere, duro e introverso, ma durante i nostri incontri ci siamo capiti immediatamente. L’amore per il teatro , la sceneggiatura , ha poi  suggellato questo connubio.
Un passo indietro. Durante la campagna di Russia da combattente e nei cinque campi di prigionia, come sopravvisse l’arte nel soldato Gauli?
Ero ufficiale di artiglieria  alpina. Quando andavo a fare una ricerca di postazione per collocare la batteria  era prassi disegnare il paesaggio. Una batteria deve essere disposta in un certo modo, mimetizzata nell’ambiente ma efficiente nella sua operatività.
Arte e tattica militare insieme?
Sì, ma  ci fu anche un gesto teatrale che salvò la vita a miei uomini. Eravamo in 19. Li feci distendere  come se fossero morti. E quando si aprì la botola del carro armato nemico, con un gesto repentino, lanciai la bomba a mano facendo saltare in aria il carro.
E durante la prigionia?
Disegnavo  con le matite copiative  che gli amici riuscivano a procurami nel campo di concentramento. Bagnavo con la saliva le punte del lapis  e così nacquero i disegni verdi di Cholm. In cambio diedi delle sigarette ma ebbi la felicità di poter finalmente disegnare. Ebbi anche della carta, era quella distribuita per le lettere. Fu un conforto indicibile per me che giorno dopo giorno, mi andavo incupendo nell’impossibilità di esprimere la mia fantasia. Quando insalivavo la punta della  matita, sentivo l’acido in bocca. La umettavo preso com’ero nella foga del disegnare. Salvai con la spedizione del pacco militare tante opere  che mi raccontano e mi rispecchiano in una delle epoche più tragiche della mia vita.
Tra i tanti amici e colleghi chi ricorda di più?
Due in particolare Aligi Sassu e Renato Birolli, due angeli custodi che mi hanno sempre sostenuto anche durate tutto il periodo bellico.
E con Treccani il fondatore di «Corrente»?
Ernesto ha il merito di aver creato  per primo il movimento. Ma era un ragazzino,dietro di lui  c’era il padre Giovanni il quale voleva che il figlio condividesse  i suoi stessi sentimenti, la sua passione per la letteratura, la sua ambizione alla divulgazione.
Maestro, i suoi ricordi più cari  oltre a quelli della sua Valle a quale città sono legati?
Ho girato i musei di tutta Europa. Sacrifici per esportare l’arte, un sostentamento necessario per poter sopravvivere. Ma il mio cuore mi porta a Padova, alla mia giovinezza. Nel 1938 lì come a Milano  erano stagioni di vivo fermento. L’università era il centro  dal quale si irradiavano proposte nuove e sollecitanti anche per merito di docenti illuminati. Frequentavo la facoltà di ingegneria e facevo parte di quella generazione che cresceva nel segno dell’inquietudine, della dissoluzione delle antiche certezze e dei miti artificiali edificati dal fascismo, che la vera cultura non poteva che dileggiare e negare.
A Palazzo Reale ha conosciuto anche Vittorio Sgarbi...
Un grande critico. Mi ha detto Piero non fermarti!
Cosa prevede di fare per il futuro?
Continuare a dipingere e a suscitare emozioni.
E il suo sogno nel cassetto?
Essere ricordato e apprezzato per il valore della mia arte e per il significato che attraverso essa sono riuscito ad esprimere.

Francesco Aita

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