Plinio, il primo ecologista:
"L'uomo distrugge la natura"

Il naturalista lariano nella sua "Naturalis Historia" aveva descritto
i pericoli dell'atteggiamento predatorio nei confronti dell'ambiente

Con questo articolo su Plinio il Vecchio Franco Minonzio inizia la sua collaborazione con «La Provincia»


Talvolta ci è utile, a mitigare la nostra presunzione, ricordare che molti problemi che lo sviluppo tecnologico oggi ci consegna, e appaiono quasi il segno di una rivolta degli elementi naturali, non sono nati con la modernità.  Tra quanti, nel mondo antico, hanno posto al centro della riflessione filosofica e scientifica l’idea di natura, e percepito, nella sua drammaticità, l’originaria tensione dialettica che contrappone la natura e la società umana, un posto di rilievo spetta senza dubbio al nostro conterraneo Plinio il vecchio. Pensatore asistematico, autore di quello sterminato "inventario del mondo" che è la Naturalis historia, raccoglitore farraginoso di schede di lettura, ma anche attento osservatore di ogni forma di conoscenza empirica del mondo naturale, Plinio sviluppò (ad esempio in N. H.,VII, 1-5) assai prima di Leopardi, con parole che Leopardi avrebbe riecheggiato, il tema - già lucreziano - della natura noverca, della natura matrigna la cui ostilità si mostra, all’atto stesso della nascita, nelle condizioni di fragilità e indigenza dell’essere umano, ma che sa poi farsi palese a mezzo di una rovinosa catena di terremoti, inondazioni, crolli. E tuttavia, catalogatore instancabile di ogni forma di appropriazione della natura tramite il lavoro, non pensò mai che tale conflittualità dovesse tradursi in una sudditanza paurosa del genere umano, in una rinuncia a trarre dalla natura i mirabilia dei quali essa era gravida. Se la sfera d’azione umana e quella naturale erano distinte e potenzialmente in conflitto, anche per Plinio, però, l’ambiente non poteva che essere terreno d’esercizio dell’industriosa attività umana. Egli ebbe tuttavia il merito di richiamare l’attenzione sugli effetti di deformazione ambientale implicati dal lavoro umano, e dunque sui vincoli che sarebbe stato auspicabile porre a tale attività. Ciò lo condusse ad una attenta ricognizione dei mutamenti che, a partire dalla tarda età repubblicana, e poi in età giulio-claudia, furono introdotti nell’ambiente italico: frequenti drenaggi delle acque, massicci disboscamenti, alterazioni profonde della geomorfologia del terreno, introdotte ora a beneficio della privata luxuria, ora in nome della pubblica utilità: lavori che non si arrestavano, talora, neppure di fronte alla sacralità di luoghi legati a remotissime tradizioni religiose, quale il disboscamento del lago d’Averno in area cumana, operato da M. Vipsanio Agrippa.
E così la violazione della natura, e la sua difesa dalle ingiuste accuse degli uomini, trovano in Plinio accenti che sarebbe erroneo liquidare come mero esercizio di retorica: «noi inquiniamo sia i fiumi che gli elementi della natura, e rendiamo dannosa l’aria stessa che respiriamo. E non c’è ragione di credere che i veleni siano ignoti agli animali: abbiamo mostrato quali precauzioni essi prendano nella lotta con i serpenti, e quali rimedi abbiano escogitato per medicarsi dopo lo scontro. Eppure, solo l’uomo lotta con veleni non suoi. Riconosciamo dunque la colpa di noi uomini, non paghi neanche dei veleni che si trovano in natura» (N. H., XVIII, 3-4). Agli occhi del naturalista è soprattutto in ambito minerario che l’alterazione si muta in profanazione, provocando (didicit homo naturam provocare) l’indignata reazione delle forze naturali. L’idea organicistica della natura-corpo, personificazione dalla sterminata corporeità, fa da sfondo alla concezione della terra, sacra parens, che serba nascoste nel suo seno quelle ricchezze delle quali l’umanità va in cerca, sprezzante delle rovine che - sconciando la terra, con il privarla dello scheletro - infligge a se stessa: «Tentiamo di raggiungere tutte le fibre intime della terra e viviamo sopra le cavità che vi abbiamo prodotto, meravigliandoci che talvolta essa si spalanchi o si metta a tremare, come se, in verità, non potesse esprimersi così l’indignazione della nostra sacra genitrice. Penetriamo nelle sue viscere e cerchiamo ricchezze nella sede dei Mani, quasi che fosse poco generosa e feconda là dove la calchiamo sotto i piedi. E fra tutti gli oggetti della nostra ricerca pochissimi sono destinati a produrre rimedi medicinali: quanti infatti sono quelli che scavano avendo come scopo la medicina? Anche questa tuttavia la terra ci fornisce alla sua superficie, come ci fornisce i cereali, essa che è generosa e benevola in tutto ciò che ci è di giovamento» (N.H., XXXIII, 1-2).
É irrazionale, accantonando quanto ci giova e che la natura offre in superficie, ostinarsi a perseguire sotto terra le cose che ci rovinano: cose che non si generano in un momento, e che con la loro stessa rarità alimentano l’insaziabilità umana: folle, dunque, agli occhi di Plinio, non solo anteporre ad ogni cosa l’oro ma, in quanto tale, anche la stessa operazione di scavo alla sua ricerca. Plinio, infatti, non condanna l’estrazione dei metalli: la natura li ha creati in funzione dell’uomo. Plinio condanna una dissennata opera di ricerca dei metalli che comporta lo sgretolamento delle rocce, la disgregazione delle montagne: perché, diversamente dai metalli, le montagne la natura le ha create per sé: «come una sorta di scheletro che doveva consolidare le viscere della terra e nel contempo frenare l’impeto dei fiumi e frangere i flutti marini, nonché stabilizzare gli elementi più turbolenti con l’aiuto della loro solidissima materia» (N.H., XXXVI, 1). Ma spianare montagne, spaccare promontori per far passare il mare, in ossequio alla smania di lusso dei nuovi ricchi, eccede la sfera del paradosso: è per Plinio compiutamente innaturale. Innaturale, nell’estrazione delle rocce, la violazione del corpo della natura ma, non meno, innaturale è che la asportazione delle ossa della terra si attui tramite innaturali mezzi di trasporto, su innaturali  spazi (poiché è innaturale che quanto - le rocce - la natura ha creato per frangere i flutti sia trasferito solcando il selvaggio elemento dei flutti). L’insensatezza appare ancora più marcata quando si consideri che a tale devastazione ambientale era chiamata a cooperare la più raffinata tecnologia del tempo. Di tecniche idrauliche, infatti, si avvalevano le forme di scavo che Plinio valuta più impressionanti, quelle da lui designate come ruina montium.Tali forme di scavo sono quelle delle arrugiae (N.H., XXXIII, 70-73) e dei corrugi (N.H., XXXIII, 74-78). Entrambe distruggono il contesto originario della montagna alla quale si applica l’escavazione: rendendola una sorta di crivello, avviando poi un crollo franoso a catena, nel caso delle arrugiae facendole percorrere da corsi d’acqua appositamente derivati nel caso dei corrugi (il termine, secondo Plinio, trae appunto la sua origine da conrivatio, derivazione d’acqua): acqua che occorreva far salire ad una innaturale pendenza, di gran lunga superiore alla pendenza massima del 10%, rilevata a Priene, delle condotte greche e romane.
Ma di tutto questo non la tecnologia, ma il suo utilizzo sociale, reca aperta responsabilità: e Plinio - come è prevedibile - serba per le realizzazioni di ingegneria idraulica una ammirazione viva, per quanto mai disgiunta da una sottile vena ironica verso l’evergetismo megalomane, che raggiunse il suo apice in età imperiale.
Franco Minonzio

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