«Presto la voce a Ligabue
per raccontare la diversità»

Intervista a Marco Perrotta, questa sera al San Teodoro di Cantù con il monologo dedicato al tormentato pittore

La solitudine profondissima, tra dignità e disperazione. La diffidenza e l’ostracismo negli occhi degli altri. E poi il genio che va oltre le parole e si trasforma in un intero universo di immagini. Tutto questo è Antonio Ligabue, l’emarginato, il diverso, l’artista dal talento straordinario e nascosto fino agli ultimi anni di vita.

E tutto questo verrà raccontato, stasera, venerdì 11 ottobre, alle 21, al Teatro San Teodoro di Cantù. Va infatti in scena, per la Prima della sala canturina, il bellissimo monologo “Un bés”. I responsabili del teatro hanno fatto davvero un regalo al pubblico, proponendo, proprio ad inizio stagione, l’intenso e pluripremiato lavoro di Mario Perrotta.

“Un bés” è uno spettacolo di grande successo. Ha vinto moltissimi riconoscimenti, tra cui il Premio Ubu 2013 per il Miglior Attore Protagonista e il Premio Ubu 2015 per il Miglior Progetto Artistico e Organizzativo per il Progetto Ligabue. Ora, Perrotta, una delle personalità più carismatiche della scena contemporanea in Italia, incanterà nuovamente gli spettatori. (Biglietti da 16 a 8 euro. Info: www.teatrosanteodoro.it e [email protected]).

Quando nacque l’idea di mettere in scena la storia di Antonio Ligabue?

Qualche anno fa, io e mia moglie, stavamo vivendo un delicato percorso verso l’essere genitori. Quel figlio sarebbe venuto dall’Africa e avrebbe avuto la pelle di un colore diverso dal nostro. Percepivo già allora che questa “diversità” sarebbe potuta diventare per molti, nel nostro Paese, un problema. Visto che per me, il teatro nasce sempre da un’urgenza emotiva, decisi di creare un progetto a lungo raggio proprio sul tema della diversità. Nacque quindi la trilogia legata ad Antonio Ligabue, di cui “Un bés” è il primo episodio.

Uno spettacolo che risulta attualissimo anche oggi…

Dico sempre che è uno di quei lavori che, per assurdo, non vorrei replicare più, perché significherebbe che il problema è risolto. Invece è un tema sempre più scottante, soprattutto da quando il razzismo è stato in qualche modo giustificato e sdoganato.

Sul palco, si racconta una figura eccentrica…

Ligabue rappresenta, a tutti gli effetti, il genio misconosciuto e tormentato. La vita gli ha riservato solo abbandono, manicomio, dolore. Per gli abitanti delle campagne di Reggio Emilia, dove è arrivato un giorno perché respinti dalla Svizzera, è lo “scemo del villaggio”, il pazzo da isolare, lo strano pittore che vende le sue opere per un piatto di pasta. Poi, pochi anni prima della morte, il talento di Ligabue verrà scoperto da Renato Marino Mazzacurati, che andrà a scovarlo nella golena del Po, imbiancata di neve. Allora saranno in tanti a cercare, in cantina o nel fienile, le “croste”, diventate improvvisamente opere di valore.

Un destino struggente, tutto sintetizzato nel titolo…

Ligabue non ha mai ricevuto un bacio nella sua vita. Neppure uno. E questo esprime chiaramente la sorte avversa riservata a un essere umano che non aveva alcuna colpa e che desiderava l’amore sopra ogni cosa.

Lo spettacolo è caratterizzato dal particolare linguaggio. Come è maturata questa scelta espressiva?

Ligabue era nato in Svizzera. Ributtato poi, completamente solo, nella Pianura Padana, zona di origine del padre, dovette cercare di comprendere, almeno per sopravvivere, l’idioma locale. Sulla base di testimonianze e aggiungendovi la mia creatività, ho scelto di far parlare il personaggio in un dialetto reggiano contaminato con elementi di lingua tedesca. A questo si aggiunge il linguaggio del disegno, per due piani paralleli.

Il suo teatro nasce sempre dall’urgenza del racconto. Su quale tema si sta concentrando ora?

Partendo dalla mia esperienza di padre, ho pensato ad una nuova trilogia che ha debuttato lo scorso anno con “In nome del padre”. A gennaio, al Piccolo Teatro, andrà in scena il secondo capitolo “Della madre”, mentre il terzo episodio si intitolerà “Déi figli”. La famiglia è ora al centro delle mie riflessioni, per un teatro che vuole essere scomodo e scavare nelle nostre esistenze.

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