Quando i panni sporchi
non si lavavano in casa

In un libro della Famiglia Comasca la storia dei 90 lavatoi cittadini
Non solo luoghi di servizio, ma veri punti di aggregazione sociale

Novanta lavatoi esistenti a Como nel corso dei secoli sono stati censiti da Lorenzo Marazzi, cultore di storia locale, per conto della Famiglia Comasca, e descritti del libro Lavandaie e lavatoi a Como (Edizioni della Famiglia Comasca, 207 pp.), che verrà presentato il 4 dicembre alle 21 nell’auditorium del Collegio Gallio in occasione della serata prenatalizia del sodalizio lariano.

Una storia parallela
Una ricerca sorprendente, perchè descrive una mappa inedita della nostra città, quella disegnata delle lavandaie e del loro lavorìo sul greto del lago e dei torrenti, e poi via via nelle vasche di pietra usate anche come abbeveratoi per il bestiame, in quelle sdoppiate per consentire il risciacquo dei panni, quelli a postazione singola introdotti nel Novecento. Una storia di Como parallela, che non è solo storia di manufatti e punti di captazione delle acque ma anche, se non soprattutto, storia sociale e culturale, perchè racconta di un lavoro estremamente duro, al di là del folklore sulla «bella lavanderina», e perchè quelle vasche rappresentavano un punto di aggregazione.
Merito del libro di Marazzi non è solo quello di aver documentato collocazione e struttura dei numerosi lavatoi cittadini - molti dei quali esistono ancora, e in qualche caso sono persino funzionanti - ma anche quello di aver descritto la figura della lavandaia, a cominciare dall’abbigliamento («un ampio grembiule che copriva la gonna e la camicetta di cotone e la blusetta di lana(...); il nastro, che raccoglieva le trecce dei capelli raccolte a chignon (...) variava di colore a seconda dell’età e dello stato civile; (...) infine a piedi vi erano gli zoccoli di legno»). Esuberanti e solidali, le lavandaie (ma il lavoro, soprattutto per conto terzi, non era un’esclusiva delle donne) venivano avviate al lavoro giovanissime, a dieci anni; era il mestiere della povera gente, ed era durissimo: «destinate a lavorare al freddo immergendo le mani nell’acqua gelida; questa situazione provocava a lungo andare artriti, artrosi e deformazioni alle mani». A volte «le figlie minori o le anziane mamme portavamo alle lavoranti la caldèra con acqua bollente, per consentire di immergere le mani e riattivare la circolazione del sangue». E per portare sollievo alle ginocchia, venne introdotto un piano di legno con un cuscino, la predèla. Le ragazze erano addestrate da una lavandaia anziana, che dapprima insegnava loro a lavare i capi più semplici e poi quelli più impegnativi, fino alle lenzuola. Impressionante la mole di lavoro: in un rapporto del 1901 dell’Ufficio tecnico comunale teso a valutare il fabbisogno di postazioni per il nuovo lavatoio del borgo di San Martino, si calcola che la biancheria lavata da ciascuna quotidianamente (per quattro giorni alla settimana) ammontasse a ben 125 kg.
Barbara Faverio

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