"Dio, se hai un momento
ti prego di parlarmi..."

Ecco il racconto che, a Varese, si è aggiudicato il Premio Chiara Giovani

<+G_SQUARE><+G_TONDO> Una trentina di premi, uno più uno meno, in tre anni. Primi premi, perchè - spiega, stemperando subito dopo nell’ironia - «i concorsi per me sono come l’America’s cup: non ci sono secondi». Filippo Pozzoli, 19 anni, di Merone, vincitore domenica del Chiara Giovani, nonostante la giovane età è un veterano delle competizioni letterarie: «Ho cominciato a partecipare a 16 anni. Fra quelli che mi hanno dato più soddisfazioni, il premio alla Fiera del libro di Pordenone, l’anno scorso: mi ha premiato Gianni Mura, che era anche l’unico giurato». <+G_DOMANDA>Come ha iniziato? <+G_TONDO>Come tanti, con due parole ogni tanto sui blog. Poi qualcuno ha iniziato a dire che scrivevo bene, e ho buttato giù il primo racconto. Ho cominciato a mandarli ai concorsi, e finora mi è andata bene. Ma è ancora un gioco: dopo otto ore di numeri all’università - studio Ingegneria edile e architettura - ho bisogno di un modo per non prendermi troppo sul serio. <+G_DOMANDA>Da grande vorrebbe fare l’ingegnere-architetto o lo scrittore? <+G_TONDO>Sul fronte della scrittura sto cercando ancora conferme. La scelta dell’università è stata dettata anche dal desiderio che la narrativa rimanesse un piacere. Non voglio doverlo fare per forza, l’idea mi nauseava. Allora ho scelto una cosa che non c’entrava niente; anche perchè ho sempre avuto una grande predisposizione per le cose scientifiche, al liceo mi sono affermato alle olimpiadi di matematica e fisica. Ma la scrittura resta il primo piacere assoluto. <+G_DOMANDA>Come lettore cosa predilige? <+G_TONDO>Mi piace variare molto, anche nei tempi: d’estate leggo tantissimo, anche 10-12 ore al giorno, mentre d’inverno, con lo studio, mi ci dedico poco. Se devo fare il nome di un autore classico, il mio preferito è sicuramente Calvino, fra i contemporanei sto divorando Fred Vargas, ma mi sono piaciuti molto anche Veronesi e Ammanniti, che ho conosciuto alla scuola Holden di Baricco quando mi hanno selezionato per un seminario. <+G_DOMANDA>È vero che il racconto premiato al Chiara l’ha scritto la sera prima della scadenza del bando? <+G_TONDO>È una costante, magari ci penso tre mesi, poi la sera prima del termine - scrivo sempre di notte - mi butto e scrivo in quattro-cinque ore. <+G_DOMANDA>Pensa a un romanzo? <+G_TONDO>Più che un pensiero è un sogno. Ma se i racconti li scrivo di getto, quest’abitudine pregiudica molto l’approccio al romanzo; e poi non ho ancora la storia, e vorrei che fosse una storia importante. Il mio sogno non è tanto pubblicarlo quanto scriverlo, mi interessa che ci sia il mio nome sulla copertina; anche solo in modo ideale, sul primo di un mucchio di fogli usciti dalla stampante. <+G_FIRMA>Barbara Faverio

di Filippo Pozzoli


Così è successo. Non mi hai fermato quando colmo di rabbia scappavo da lei e lei gridava piano e io salivo in sella e mettevo in moto. Gli amici, dicono, servirebbero anche a questo. A darci un perno cui ruotare attorno, a tenerci nel cerchio prima che una qualche tangente ci porti lontano.
Io però di amici ne ho avuti pochi. All’elementari il mio problema eran le scarpe, dei mocassini testa di moro. A me non facevan né caldo né freddo, ma per i miei compagni erano da vecchi, da maestri. E poi con quelle scarpe venivan sempre dei tiri di merda quando si giocava a calcio nel cortile in ricreazione, sicché inivo per starmene vicino alla roggia a curar che la palla non ci cascasse dentro, ché sennò eran botte. Io da solo nemmeno stavo male. Al mare, da bambino, mi piaceva camminare sul bagnasciuga con la testa bassa e gonia di grandi discorsi. Parlavo da solo, in silenzio. Quando i pensieri si facevano più concitati mi mettevo a correre, fregandomene delle conchiglie e degli scogli a tagliarmi i piedi.
E nemmeno a scuola era un dramma, quando correvo per il selciato dove quelli di terza parcheggiavan le moto e mi urlavano – Culo! tirando gomme masticate. Assorto com’ero neanche li sentivo. I professori, invece, ne fecero un problema. E i miei, che di me sapevan solo per loro, furono inesorabilmente d’accordo. A dodici anni sedetti s’un lettino in pelle marrone appena viva di una luce soffusa, e una voce calda in completo grigio alle mie spalle poneva domande strane. Io non sapevo rispondere, mi sembrava una gran presa in giro e pur di andarmene in fretta inventavo risposte che talvolta dovevo ripetere lento.
Vi fui diverse volte prima che diede a mio padre un foglio piegato tra le dita. Questi imprecò sottovoce, vuotando il portafoglio sulla scrivania in rovere, e mi portò a casa. La sera tornò con una scatola bianca iniocchettata di rosso alla meno peggio.
Disse solo – Una per sera, avvertimi quando ne restan poche, poi sparì dietro la porta e lo sentii urlare alla mamma. Penso il fiocco ce lo avesse messo lui. Non rividi più la voce in grigio che poi seppi psichiatra, a quanto diceva mio padre si mangiava stipendi a seduta. Però di scatole bianche ne arrivano ancora, ogni quindici giorni. Loro non sanno ho smesso di prenderle da un pezzo, ché di iocchi sfatti da adocchiare in pattumiera non se ne son più avuti. Arrivai al liceo l’anno scorso. Finito il primo tomo della mia vita, pensai, era giusto iniziare il secondo con la giusta penna. Mi sentivo cambiato. In me sentivo che non sarei più stato solo, che più mi sarei messo a correre a capo chino fuori dal mondo e anzi avrei deriso e insultato e chiamato culo chi l’avesse fatto.
Avevo capito le regole del gioco e sentivo la mia mano fortunata era lì lì per arrivare. Cominciai a fumare, a studiare meno e ad acquistare jeans costosissimi di opinabile gusto. Mi interessai di calcio, comprai un cellulare nuovo e una motocicletta usata in buono stato. Un Gilera Arcore del ’76, blu, con la targhetta in ottone di moto d’epoca a calar dalla sella. Elegante, chic, vagamente dandy. Conobbi una ragazza, a scuola, due anni più grande. Magra, le gambe lunghe e sottili a reggere un piccolo ventre perfetto, e degli occhioni azzurri che nemmeno il cielo e un sorriso come zucchero, grande da perdersi dentro. Sorrideva sempre e rideva alle mie battute. Cominciai a scriverle parole che scivolavan timide e lente come miele dalle dita tozze alla tastiera. Una volta mi imbucai ad una festa e la incontrai.
Mi invitò a ballare, sorridendo. Non ne ero capace, affatto, ma la volli convincere del contrario. Capì, e rise. Passò una canzone lenta, non ricordo quale, e ci abbracciammo. Le sentivo il collo tanto tiepido sulla guancia da cercarle l’orecchio e sussurrare in un rantolo – Sei bellissima –. Non mi sentì, o non rispose. La vidi all’indomani dietro la stazione, dove branchi di coetanei si parcheggiano a sbraitare, insultarsi e fumare nel lungo meriggio domenicale. Lei era tra le braccia di uno col cranio rasato quando m’adocchiò.
Mi presentò disinvolta a lui, che disse di non conoscermi. Io lo conoscevo, aveva la stessa moto gialla dalla terza media. Rammento la sua ineffabile bravura a sputar gomme masticate. Sospirai un – Fanculo. a denti stretti, e me ne corsi alla moto. Lei gridò il mio nome piano, una volta sola. Mi forzai di non girarmi, con la rabbia che sfogai alla pedivella del Gilera. Ché poi si cresce, e dei mocassini non si ricorda più nessuno. Ma quel tanto di sbagliato che hai da piccolo ti si impregna addosso, come il fritto delle birrerie, e nulla te ne toglie. Quel tanto di sbagliato che ti tiene in casa il sabato sera, che alle feste ti ci porta poco, che in gita ti fa stare in camera con quelli che restano fuori. Quel tanto di sbagliato che ti fa diverso, più nel male che nel bene, che in ogni dove, in ogni quando e in ogni cuore ti tiene lì a prender palle mentre gli altri giocano.
A pregare non sono mai stato bravo. Da bambino entravo in Chiesa con l’occhio all’orologio ed ero convinto l’“andate in Pace” volesse dir “via tutti, ché lo strazio è finito”. Ma qualche volta ti ho parlato, senza segni, croci né preghiere. Quando correvo a testa bassa coi pensieri al di là del cielo e del mare, quando cercavo qualcosa nei jeans cari e nel telefono nuovo, quando vuotavo nel cesso le scatole bianche che mai mancavano, ogni quindici giorni, di ricordarmi chi fossi per davvero. Questa volta ascoltami, se ancora puoi sentirmi, se i vagiti han qualche forza sul mio polso tenue e sulla sirena tonante della Croce Rossa. Perché così è successo. Non mi hai fermato quando colmo di rabbia scappavo da lei e lei gridava piano e io salivo in sella e mettevo in moto e col polso ancora vivo spalancavo il gas e cogli occhi cechi di lacrime mi buttavo sulla Provinciale in contromano.
Il fuoristrada bianco nemmeno m’ha sentito. Mentre io son sull’asfalto bollente di nero, e il Gilera chissà dove. Ascoltami, se ancora puoi sentirmi, se un momento, dicono, ce l’hai per tutti. Questo è mio, non ne ho mai chiesti e non te ne chiederò. Non salvarmi, è colpa mia. Ma se hai un momento, ora, ti prego di parlarmi.

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Una trentina di premi, uno più uno meno, in tre anni. Primi premi, perchè - spiega, stemperando subito dopo nell’ironia - «i concorsi per me sono come l’America’s cup: non ci sono secondi». Filippo Pozzoli, 19 anni, di Merone, vincitore domenica del Chiara Giovani, nonostante la giovane età è un veterano delle competizioni letterarie: «Ho cominciato a partecipare a 16 anni. Fra quelli che mi hanno dato più soddisfazioni, il premio alla Fiera del libro di Pordenone, l’anno scorso: mi ha premiato Gianni Mura, che era anche l’unico giurato».

Come ha iniziato?

Come tanti, con due parole ogni tanto sui blog. Poi qualcuno ha iniziato a dire che scrivevo bene, e ho buttato giù il primo racconto. Ho cominciato a mandarli ai concorsi, e finora mi è andata bene. Ma è ancora un gioco: dopo otto ore di numeri all’università - studio Ingegneria edile e architettura - ho bisogno di un modo per non prendermi troppo sul serio.

Da grande vorrebbe fare l’ingegnere-architetto o lo scrittore?

Sul fronte della scrittura sto cercando ancora conferme. La scelta dell’università è stata dettata anche dal desiderio che la narrativa rimanesse un piacere. Non voglio doverlo fare per forza, l’idea mi nauseava. Allora ho scelto una cosa che non c’entrava niente; anche perchè ho sempre avuto una grande predisposizione per le cose scientifiche, al liceo mi sono affermato alle olimpiadi di matematica e fisica. Ma la scrittura resta il primo piacere assoluto.

Come lettore cosa predilige?

Mi piace variare molto, anche nei tempi: d’estate leggo tantissimo, anche 10-12 ore al giorno, mentre d’inverno, con lo studio, mi ci dedico poco. Se devo fare il nome di un autore classico, il mio preferito è sicuramente Calvino, fra i contemporanei sto divorando Fred Vargas, ma mi sono piaciuti molto anche Veronesi e Ammanniti, che ho conosciuto alla scuola Holden di Baricco quando mi hanno selezionato per un seminario.

È vero che il racconto premiato al Chiara l’ha scritto la sera prima della scadenza del bando?

È una costante, magari ci penso tre mesi, poi la sera prima del termine - scrivo sempre di notte - mi butto e scrivo in quattro-cinque ore.

Pensa a un romanzo?

Più che un pensiero è un sogno. Ma se i racconti li scrivo di getto, quest’abitudine pregiudica molto l’approccio al romanzo; e poi non ho ancora la storia, e vorrei che fosse una storia importante. Il mio sogno non è tanto pubblicarlo quanto scriverlo, mi interessa che ci sia il mio nome sulla copertina; anche solo in modo ideale, sul primo di un mucchio di fogli usciti dalla stampante.

Barbara Faverio

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