“Sangue” di Delbono
Politica mista a dolore

In concorso a Locarno il film di Pippo Delbono realizzato con l’ex leader Br Giovanni Senzani. Un teatrante e un vecchio militante mai dissociato dalla lotta armata in una storia molto amara

Festival di Locarno, anno 2008. In una sezione collaterale, il documentario “Il sol dell’avvenire” di Gianfranco Pannone porta sullo schermo un drappello di brigatisti rossi.

I l film è atteso, ma quella dei suoi protagonisti non va tanto più in là di una rimpatriata.

Festival di Locarno, anno 2013: in concorso l’Italia scende - ieri - con “Sangue” di Pippo Delbono, elaborazione di un’idea del regista e di Giovanni Senzani, già leader delle Brigate rosse, che ha finito di scontare la pena cui era stato condannato.

Di “Sangue” entrambi, Delbono e Senzani, sono protagonisti, ma il film, la cui verità documentaria sgomenta, e non solo per gli echi della criminalità brigatista, è di ardua catalogazione.

Nessuna finzione, ovviamente, ma piuttosto che un documentario potrebbe dirsi l’immagine di un’esperienza del dolore.

Vi converge la singolare amicizia dei personaggi, veri, s’intende.

Un teatrante di rilievo internazionale – attore talora sullo schermo, quasi condannato a parti negative - come nel recente “Cha cha cha” - che da qualche anno gira film utilizzando la videocamera del telefono cellulare, e un ormai vecchio militante mai dissociato dalla lotta armata.

Sulla scena della vita, l’incrocio del destino li priva quasi con temporaneamente degli affetti più cari: si ammala e muore la mamma di Delbono, così come se ne va la compagna di Senzani, che l’aveva atteso per i venti e più anni di galera.

Di malattia e fine di Margherita Delbono, il film registra la progressione, con la parentesi tragicomica del figlio che si reca in Albania per comprare un farmaco “alternativo”.

Un colloquio familiare fa da viatico, il ritratto della madre da morta è la “maschera”, l’antico calco del viso dei defunti, eseguita con immagini che non si fermano nemmeno quando i necrofori chiudono la bara.

Quanto al funerale, in “Sangue” lo si vede nelle prime immagini del film, ma quello di Prospero Gallinari.

Senzani aveva chiesto all’amico di accompagnarlo alle esequie del compagno, Delbono va e vede con la videocamera con cui poi registrerà anche quello che Senzani, che del silenzio aveva fatto la pratica più rigorosa, avrà da dire: tanto la recriminazione di torture patite dopo l’arresto, quanto il ricordo vivo e rabbrividente dell’assassinio “trasversale” del fratello di Patrizio Peci, l’esecuzione dopo il processo proletario.

In una scala inedita tra il video privato e la persistenza del dramma, “Sangue” è davvero un film che racconta una storia scritta dalla vita, secondo la dichiarazione del regista, a cominciare dall’amicizia tra personaggi dai trascorsi così distanti, eppure così prossimi di fronte alla morte.

Tra loro la figura materna, con il suo fervore cattolico, per Delbono, e l’ombra della compagna, per Senzani, occupano il rango che ne colloca il nome nei titoli.

Il regista salda il proprio debito con il teatro sul palcoscenico della sua “Cavalleria rusticana”, per Giovanni Senzani vale la considerazione espressa in “The Ugly One”, il film di Eric Baudelaire, parimenti esposto ieri: non si può mettere la preposizione “ex” alla parola terrorista.

Un film, questo “Sangue” di Pippo Delbono, che ha saputo impressionare non poco il pubblico del festival internazionale elvetico.

E che ha saputo anche rinverdire inquietanti interrogativi collegati alla storia del nostro Paese, in particola a quegli “anni di piombo” che è proprio così difficile dimenticare.

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