Scalfari, l'ora della riconciliazione

Nell'ultimo libro vita, carriera, affetti e un'inedita attitudine alla mediazione

Eugenio Scalfari terrà una lectio magistralis venerdì 11 ottobre alle 21 a Villa Recalcati di Varese, nell’ambito del Festival del Racconto Premio Chiara 2008, sul tema «Il mestiere di scrivere e raccontare storie». 
 
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L’uomo che non credeva in Dio ha scritto un bel libro. La resa dei conti di una vita, il penultimo capitolo di una storia non finita. Un’autobiografia <L’uomo che non credeva in Dio> di Eugenio Scalfari, Einaudi editore) che corre via lieve, assai più di certe "articolesse" che ancor oggi scrive la domenica, su Repubblica
Scalfari percorre passo passo dall’infanzia alla vecchiaia, alternando scene tratteggiate in acquarello a pensieri di filosofia, la sua passione più limpida.
Tredici capitoli, il primo e l’ultimo che si saldano, a chiudere un cerchio. E il settimo, quello che sta in mezzo, sulla morte di Dio.

Un Dio che in tutte le pagine è vivo e vegeto, a braccetto con l’Io già incontrato e narrato da Scalfari in passato. Dentro ci sta tutto, dagli affetti agli amori, al lavoro.
«Un mestiere crudele», così è definito il giornalismo e in venti pagine si comprendono le regole e il principio che hanno portato un sobrio funzionario di banca ad intraprendere la carriera di cronista e poi a fondare un giornale e di più, un impero. Ne citiamo un passo: «Questo mestiere crudele e il senso che se ne trae hanno poco da spartire con la solidarietà e la compassione. Richiedono un carattere addestrato al combattimento, un’ambizione a vincere più che a soccorrere».
Pochi paragrafi prima scrive: «Il giornalismo non è un mestiere che consenta un tempo libero autonomo rispetto alla professione. Richiede una vocazione. Se quella vocazione non c’è, inutile provarci. Vocazione al giornalismo vuol dire voglia e capacità di entrare nella vita degli altri, per raccontarli cogliendoli in tutte le loro posture, quelle gradevoli e quelle inquietanti, innocue o criminose, normali o devianti. Vocazione a invadere la vita degli altri, a cominciare da quelli che esercitano un potere. Perciò il giornalismo è un contropotere e come tale detiene un intenso potere di controllo. Questa è la ragione che rende la libertà di stampa necessaria alla democrazia e tutelata dalle costituzioni democratiche, una patente di nobiltà che però non ne modifica l’essenza: invadere la vita altrui. Come tutte le invasioni, anche questa dà un sorta di ebbrezza, un senso di controllo che andrebbe controllato e moderato. (...) Io l’ho provato quel senso di potenza e non rappresento un’eccezione ma piuttosto una regola. (...) E aspiri ad essere il più bravo a farlo. Il più aggressivo. Il più irriducibile».
Eugenio Scalfari lo è stato e forse lo è tuttora, pur se il tempo galantuomo gli ha concesso lunghi giorni e con essi una prospettiva diversa, un modo nuovo di mettersi in relazione con sé stesso e con il mondo. Si spiegano così, crediamo, riconciliazioni che negli anni ruggenti del suo mandato erano inimmaginabili.

Una su tutte, quella con il grande vecchio del giornalismo italiano, quell’Indro Montanelli imbattibile di penna e d’ingegno, che Scalfari ha superato solo nell’abilità di portare al successo i giornali che ha creato. Il fiero toscano in questo non poteva avere scampo con il calabrese calvinista con il culto del lavoro e del primato.
E soltanto il tempo, dicevamo, poteva riavvicinare ciò che per carattere e formazione era rimasto per decenni diviso.
Il giornalismo non è tuttavia che uno spicchio del libro. E lo Scalfari duro, austero, il direttore irreprensibile e tremendo, offre di sé attraverso il libro un volto sereno e disteso.
È quello del bimbo accompagnato mano nella mano dalla madre, in chiesa. Il ragazzino che cambia casa e si ritrova in un palazzo sterminato, ginepraio di scale e corridoi, dove ogni appartamento è confuso con l’altro. Il compagno di banco di Calvino, al liceo di Sanremo. E ancora il marito, il padre, il nonno tenerissimo. E poi c’è il viaggiatore del pensiero filosofico, che mastica e rende commestibile pure per il lettore distratto Kant, Spinoza, Parmenide, Eraclito, Nietzsche, Cartesio. È questo uno Scalfari divulgativo, forse fin troppo didascalico che tuttavia convince e coinvolge con l’entusiasmo di colui che avendo trovato un tesoro in un campo ha il puntiglioso entusiasmo di raccontarlo.
Giorgio Bardaglio

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