Da Modena all’Alpe di Colonno: di cosa si parla quando si parla di “rave party” e cosa prevede il decreto del governo Meloni

Attualità Due casi di cronaca, tra il nazionale e il locale, e le nuove norme varate dal governo sul tema hanno riacceso il dibattito: diteci la vostra nel sondaggio qui

Se ne parla da circa trent’anni e spesso sul tema sorgono polemiche a seguito della sola menzione della loro esistenza, anche sul nostro territorio. Ma di cosa parliamo quando parliamo di rave party?

Una definizione per cominciare

Partiamo da una definizione: secondo la Treccani, il rave party è «un grande raduno di giovani, notturno, per lo più clandestino e di carattere trasgressivo, la cui ubicazione viene generalmente resa nota solo poche ore prima dell’inizio della festa, per evitare possibili interventi delle forze dell’ordine. Si svolge all’aperto o in locali adatti ad accogliere migliaia di persone, che ballano e ascoltano musica elettronica, house o techno ad altissimo volume, e che spesso fanno uso di sostanze stupefacenti».

A occuparsi dell’organizzazione di questi eventi sono gruppi di persone chiamati “crew”, che comprendono anche i dj, responsabili dell’aspetto musicale delle serate. Nella prassi, non esiste una campagna pubblicitaria mirata a diffondere la notizia del rave party ma perlopiù si comunica tramite passa-parola (su Whatsapp, Telegram e gruppi Facebook) cercando di evitare la diffusione di eccessivi dettagli che in alcuni casi possono portare a un intervento mirato delle forze dell’ordine.

Da Detroit fino all’Italia: il fenomeno del rave party nasce negli anni ’80

Qualche pillola di storia: il fenomeno dei rave party (noti anche come free party) è nato a Detroit negli anni Ottanta, per poi raggiungere il Regno Unito prima e il resto d’Europa poi. Furono intesi in quegli anni di origine del fenomeno sociale come un modo per sfuggire al controllo sociale, appropriandosi temporalmente di alcuni spazi (si diffuse proprio in quegli anni l’acronimo T.A.Z. ovvero “zona temporaneamente autonoma). In Italia però il fenomeno è arrivato solo negli anni Novanta e con il nome di “techno party”.

Quando un rave party è illegale? Non sempre

Il tema sorto nelle scorse settimane riguarda proprio quest’ultimo aspetto: l’illegalità dei rave party infatti è legata soprattutto ad alcuni aspetti della sua organizzazione. Di base, l’organizzazione di una festa privata con musica non costituisce un reato, purché alcune regole fondamentali siano rispettate. Non è indispensabile chiedere al Comune sul cui territorio la festa si svolgerà, o alla Questura, un permesso per la gestione e organizzazione dell’evento: a confermarlo è la Corte di Cassazione con una sentenza del 2017 (Corte di Cassazione sez. I penale con sentenza n. 36228 del 21 luglio 2017) che fa riferimento all’articolo 17 della Costituzione, secondo il quale «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle Autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica».

Inoltre, se durante il rave si verifica il consumo di sostanze stupefacenti o atteggiamenti che possono mettere a repentaglio la sicurezza e l’incolumità pubblica, allora il discorso cambia: in questo caso a essere punite sono le singole azioni però, come l’uso e lo spaccio di droga, ma non l’organizzazione della festa in sé.

Non è quindi il rave party di per sé a essere illegale, quanto piuttosto le modalità di svolgimento dello stesso. Ecco quindi che c’è un ulteriore tassello da aggiungere per avere un quadro completo: qualora infatti l’evento comprenda attività di spettacolo o intrattenimento all’aperto con impianti soggetti a certificazione di sicurezza con capienza pari o inferiore a 200 persone, allora la stessa autorizzazione richiesta al Comune o alla questura diventa obbligatoria per questioni di pubblica incolumità e sicurezza.

Non solo, come ribadito all’interno della stessa sentenza del 2017 della Corte di Cassazione, se l’evento di pubblico intrattenimento è indetto, in un locale pubblico, da parte del titolare dell’esercizio nella sua attività imprenditoriale, si esce dalla sfera dei diritti garantiti dall’articolo 17 della Costituzione, ma si deve fare riferimento all’articolo 41 che impone limiti e controlli nel pubblico interesse: in sostanza, nel caso in cui l’evento avvenga con finalità di lucro, deve essere realizzato a seguito del rilascio della licenza da parte del questore.

I casi di cronaca recenti, tra nazionale e locale: Modena e l’Alpe Sala

Ad avere riacceso il dibattito sul tema nel comasco sono stati due eventi: uno di interesse nazionale - il rave party di Modena - e uno che ha richiamato più che altro l’attenzione dei comaschi, il rave party dell’Alpe di Colonno.

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Il contenuto della norma: punita «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi»

Il primo evento citato ha preceduto peraltro di pochissimo l’annuncio di un nuovo decreto-legge, uno dei primi del governo Meloni. La norma punta, tra le varie misure, proprio a contrastare i rave party. Nel testo del decreto-legge si parla infatti dell’aggiunta di un nuovo articolo del codice penale, il 434-bis finalizzato a punire «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico, o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» (raduni che vedano la partecipazione di più di 50 persone, occupando abusivamente terreni o edifici). Le pene previste dal decreto-legge per chi organizza raduni illegali così come per chi vi prende parte vanno dai 3 ai 6 anni di reclusione e multe da 1000 a 10.000 euro, pena che può essere diminuita per i partecipanti non responsabili dell’organizzazione.

In nessuna parte del decreto-legge si utilizzano i termini “festa” e “musica”. In molti si sono scagliati contro questa posizione del governo Meloni, temendo che possa essere usata per punire determinati tipi di raduni (come ad esempio le occupazioni di scuole o università) mentre altri si sono schierati a favore di un decreto-legge ritenuto idoneo a colmare un vuoto normativo.

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