Como: ventuno anni fa
don Renzo Beretta. Il prete di frontiera

Ponte Chiasso: venne ucciso a colpi di coltello da un immigrato irregolare che chiedeva soldi. La casa era sempre aperta per accogliere gli ultimi

«Voleva farmi paura, ma non mi ha fatto niente». Eccole le ultime parole di don Renzo Beretta. Era il 20 gennaio del 1999 quando il sacerdote le pronunciava ormai in un bagno di sangue, soccorso fuori dalla sua canonica dal vicario Giovanni Meroni. Don Renzo si difese, di fronte al suo aggressore imbracciò un ombrello, urlò, cerco di arginare la violenza che lo stava investendo, ma i colpi furono letali.

Il parroco di Santa Maria Immacolata, nel quartiere più a nord di Como, Ponte Chiasso, venne assassinato alla frontiera di un’umanità disperata, spesso in fuga verso la Svizzera, inseguendo la chimera di un futuro migliore. Non gli lasciarono scampo le coltellate, inflitte da uno degli stessi poveri a cui aveva già aperto le porte della sua casa e della sua chiesa.

Ad ucciderlo fu un clandestino marocchino già espulso dalla questura, Adidel Hakim Lakhoitri, che sarebbe stato arrestato dai Carabinieri poco dopo la morte del sacerdote, mentre tentava di fuggire a bordo di un pullman di linea che stava scendendo verso Como. Solo il giorno prima dell’omicidio Adidel Hakim Lakhoitri si era presentato da don Renzo, chiedeva un posto dove passare la notte nel piccolo centro di accoglienza, allestito in parrocchia: otto letti, sempre al completo. E anche quella volta non faceva eccezione. Il sacerdote non riuscì a garantire un’accoglienza immediata. Si disse anche che l’uomo insistette perché don Renzo gli pagasse il costo di un biglietto ferroviario per la Svizzera, ma il parroco quelle 60 mila lire non le avrebbe avute con sè. Adidel Hakim Lakhoitri se ne era così andato, ma nel giro di meno di 24 ore sarebbe tornato sui suoi passi, nascosto sotto il giaccone portava un lungo coltello e in sè la rabbia cresceva.

Don Renzo come don Roberto. Oggi, a 21 anni di distanza, a legarli non c’è solo la fine, una fine tragica e consumata occhi negli occhi con chi da sempre si cercava di aiutare. C’è soprattutto l’esempio di una vita in trincea, a lavorare ai margini, in strada, nell’incontro con la povertà.

Prete di frontiera l’uno, prete dei senzatetto l’altro, entrambi hanno testimoniato il Vangelo con i fatti.

«Sono qui a 50 metri dalla dogana con Chiasso, mi bussano alla porta, che faccio non apro? - raccontava don Renzo a una giornalista de La Provincia in quella che sarebbe stata una delle sue ultime interviste – Io non so cosa sia buono e cosa sia buonista, io faccio il mio. Vorrei avere solo più spazio, per poter aiutare più gente possibile e dare loro un futuro migliore». Don Renzo un aiuto lo aveva chiesto, più volte lo aveva detto che da soli ci sono battaglie che non possono essere vinte. Forse si sentiva abbandonato nella sua parrocchia di frontiera, non dai suoi fedeli, ma da coloro che in sinergia avrebbero dovuto garantire il controllo del territorio e la gestione del problema della grave marginalità.

Il vescovo di allora, monsignor Alessandro Maggiolini, disse a caldo: «Lasciatemi piangere in silenzio un prete al quale ho voluto un gran bene». Nel gennaio del 2019, durante la messa di suffragio a vent’anni dalla morte, il vescovo Oscar Cantoni, lo ha ricordato così. «La casa di don Renzo, come la chiesa di Ponte Chiasso, era sempre aperta all’accoglienza, in modo tale che Papa Francesco avrebbe potuto già definirla un “ospedale da campo”, in cui tutti possono sentirsi accolti e amati quali figli di Dio».

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