«La morte la conosciamo bene
Ma così è davvero straziante»

Reportage nella rianimazione del Valduce.«I primi giorni ti veniva da piangere»

«I primi giorni ti veniva da piangere» ammette, senza falsi pudori, Giuseppina Spinapolice. «Sembra brutto dirlo, ma la morte qui la conosciamo bene. Eppure questa volta è stata davvero dura» le fa eco Adele Adorni. E se pensi che a parlare sono, rispettivamente, la caposala e la direttrice della rianimazione del Valduce, il reparto che più di tutti in ospedale segna il fragile confine tra la vita e la morte, capisci che il mese di marzo di questo maledetto 2020 bisestile sarà ricordato come il peggiore di sempre.

La porta della rianimazione dà direttamente sul reparto Covid, al primo piano del Valduce. E già questo la dice lunga su che brutta bestia sia questo virus. Varchi l’uscio e ti sembra quasi di violare un luogo fragile. Al di là del vetro, i letti sono tutti pieni. I pazienti attaccati ai respiratori. Ma lo sguardo non ce la fa a indugiare su chi lotta per la vita e per l’ossigeno, che questa malattia cerca di strapparti.

«Da qualche giorno la situazione è migliorata - sospira la caposala o, meglio, la coordinatrice degli infermieri, che qui tutti chiamano Giusy - Ma quando è iniziata l’emergenza, per un mese, ogni due ore ci chiamavano per chiedere se avevamo posto per ricoverare un nuovo paziente». La terapia intensiva del Valduce è così raddoppiata, ma anche se si fosse fatta in quattro i posti non sarebbero bastati: «Un giorno - ricorda ancora Giusi - in poche ore abbiamo avuto due morti in rianimazione e sette di là (e allunga la mano verso il reparto Covid b)... è stato straziante. Non sapevamo dove mettere i corpi». Gira lo sguardo, automaticamente, verso un carrello pieno di farmaci e, sotto, scorgi due sacchi neri. E intuisci subito a cosa servono. «Anche la procedura da seguire dopo il decesso è davvero dura» conferma la caposala.

L’emergenza coronavirus ha travolto la rianimazione come uno tsunami: «In un giorno ci siamo trovati dall’avere un paziente Covid la mattina, a riempire tutti i letti con pazienti positivi al virus alle nove di sera».

In una sala il personale sanitario è riunito per un briefing. Esce la direttrice dell’unità operativa, e le sue prime parole sono la conferma di quello che, emotivamente, è l’aspetto più difficile da gestire con questa malattia: «La nostra - spiega Adele Adorni - era una rianimazione aperta. Cioè i parenti potevano venire e stare accanto ai propri cari ricoverati. Ovviamente con l’emergenza Covid abbiamo dovuto chiudere a tutti. Ma sarebbe molto meglio poterli incontrare, i famigliari dei pazienti, piuttosto che doverli chiamare al telefono». Anche se pensi che la sola priorità, soprattutto in una rianimazione, sia dedicare tutti gli sforzi per salvare il paziente e proteggere gli operatori sanitari, in realtà scopri che il risvolto umano non è mai mancato.

«Qui i parenti possono chiamarci quando vogliono - prosegue la dottoressa - Anche più volte al giorno. Inoltre grazie alla donazione anonima di alcuni tablet riusciamo a tenere contatti visivi con casa». Se la videochiamata è impossibile, le famiglie inviano videomessaggi o foto che per i pazienti non sedati sono più di una medicina.

Ma i primi giorni dell’emergenza, quando è stato necessario chiudere tutto il mondo fuori, il contraccolpo è stato pesante: «In quei giorni - ricorda Giuseppina Spinapolice - era ricoverata una ragazza giovanissima di 17 anni». La giovane - che aveva un’altra patologia - è morta proprio mentre Como precipitava nell’incubo Covid. «Noi non ce la siamo sentita di tenere i famigliari lontani. Li abbiamo vestiti con tutte le protezioni, così sono potuti restare con lei fino alla fine. È stata una ferita ulteriore, in un momento durissimo».

Lacrime, certo. Dolore, sicuro. Paura, senz’ombra di dubbio. Ma anche tanti piccoli motivi per continuare a sperare: «Innanzitutto - prosegue Giusi - la generosità dei comaschi. Se nei primi giorni non ci fossero state le donazioni, non ce l’avremmo fatta. Le prime tute antivirus ce le hanno regalate i giardinieri» racconta. Poi c’è l’attestato di gratitudine che non ti aspetti: «Quando il parente di una persona che è morta nel tuo reparto ti chiama per ringraziarti per ciò che abbiamo fatto... bé, non è scontato. E lascia il segno». E infine, ci sono i pazienti che ce l’hanno fatta: «Tutte le volte che vediamo qualcuno uscire e andare in reparto perché è fuori pericolo, è come se qualcuno ci desse la carica».

Qui, dove la morte bussa più spesso che in altri luoghi, la vita assume un sapore più dolce. «Quello che sta succedendo ci ha cambiati e ha cambiato il modo di pesare i problemi» conclude la caposala. E per convincerti che è così, ti regala un sorriso da dietro la mascherina. Che il virus lo sconfiggi anche con la gentilezza.

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