«La nostra società
ora deve cambiare
È l’ultimo appello»

Intervista a Mauro Magatti , sociologo ed economista. Docente di Sociologia all’Università Cattolica di Milano

Una pandemia che ci ha scosso e ci ferirà profondamente, ma è anche una forte spinta al cambiamento. Starà a noi decidere se in positivo o in negativo. Ne è convinto Mauro Magatti, docente di Sociologia all’Università Cattolica di Milano ed economista.

Lei per uscire dalla crisi indicava già prima del coronavirus la necessità di un cambio di paradigma, come recita il titolo di un suo libro, più attuale che mai. Quale mutamento ancora più radicale porterà e richiederà la pandemia?

Sicuramente tutto quello che è avvenuto è una spinta al cambiamento. Poi non sappiamo, nessuno sa, se questo alla fine si rivelerà positivo. Se saremo cioè in grado di sciogliere tutta una serie di nodi che si sono accumulati negli anni e non riuscivamo ad affrontare a livello italiano. Penso sia alla burocrazia, all’organizzazione della scuola o a un rapporto diverso tra imprese e Stato, sia più in generale alla sostenibilità e alla disuguaglianza. Non sappiamo se questa spinta ci renderà più capaci di affrontare questi nodi oppure questi si aggraveranno. In ogni caso, ci sarà un aggiustamento importante. Torneremo a fare tante cose a cui eravamo abituati, ma cambieranno profondamente molti equilibri economici, sociali, politici.

Parliamo di una pandemia che tocca quasi tutti i Paesi. Noi non siamo in particolare svantaggio?

Per l’Italia che arriva a questa sfida con una serie di ritardi e appesantimenti in un certo senso è un appello un po’ ultimo. Nel senso che è difficile che noi non paghiamo costi molto alti, se non mettiamo mano a questioni rimaste nel libro delle cose da fare.

In questi giorni c’è un esempio lampante: la cassa integrazione, spesso sono le imprese ad anticiparla.

Una delle grandi questioni è il tema della burocrazia che riguarda l’organizzazione della pubblica amministrazione, il modo di lavorare dentro di essa, ma anche l’impianto giuridico su cui è costruito lo Stato italiano. Fino a quando non lo metteremo in discussione, sarà difficile che otteniamo gli obiettivi che ci poniamo.

Lei fa parte della Commissione centrale di beneficenza della Fondazione Cariplo. Che cosa sta emergendo in questa fase segnata dal coronavirus?

Il blocco dell’economia chiaramente produce conseguenze anche se non sono simmetriche. Colpiscono i gruppi sociali in maniera differenziata. C’è chi ha risorse statali quindi i dipendenti pubblici piuttosto che i pensionati, che non navigano nell’oro ma almeno vivono una condizione di relativa stabilità rispetto a prima. Chi invece opera più nel campo della libera iniziativa – lavoratori autonomi, giovani, il mondo delle imprese – rischia di trovarsi in difficoltà anche seria. Alcuni gruppi sono più al sicuro insomma, altri più esposti. Per alcuni di loro l’espulsione dal mercato del lavoro può essere più o meno temporanea, quindi bisognerà cercare di fare in modo che non diventi definitiva. Introdurre elementi di sostegno e accompagnamento: penso a settori in difficoltà, come il turismo, a Como senz’altro rilevante. E avranno bisogno di interventi ad hoc.

Altri temi cruciali in questa sfida?

Il tema dei giovani, avevamo già un tasso di disoccupazione molto alto e il problema dei Neet (non studiano, non hanno un lavoro né lo cercano, ndr). C’è il pericolo che la generazione che va dai 25 ai 35 anni non muoia come gli anziani per gli effetti sanitari della pandemia, ma rischi di rimanere sotto le macerie economiche e sociali di questa crisi. Questo perché sono anni delicati, importanti, in cui si dovrebbe costruire una propria vita, personale e familiare. Ci vuole uno sforzo particolare nei confronti di questa generazione. È quella che si è sacrificata in queste settimane, per salvaguardare o non incrementare le problematiche della popolazione più anziana. E poi c’è il tema delle donne.

Anche questo rischia di diventare ancora più pesante?

All’inizio, nei decreti sembrava che esistessero solo le imprese e i lavoratori, non la famiglia. Ora ci si sta rendendo conto che il mondo fatto di imprese è fatto di lavoratori individuali e di nuclei familiari. E questo è fondamentale perché abbiamo un tasso di occupazione femminile molto basso. Le donne, soprattutto quelle giovani, sono più istruite e abbiamo anche livelli di povertà più ampi. Senza scordare che ci sono nuclei familiari composti da una sola persona. Quindi, per riassumere, c’è un tema di riqualificazione e riorientamento delle persone che perdono il lavoro e non vanno abbandonate a se stessi. Uno che riguarda il far entrare in tutti i modi a fare esperienze lavorative i giovani e bisognerà avere un’attenzione particolare alla vita familiare che permetta alle donne di continuare a lavorare.

Molti affermano che i bambini siano stati l’ultimo pensiero? È così?

Sicuramente la considerazione è condivisibile. Però questo consente di farne una più generale. Questa crisi che riguarda contemporaneamente tutti i settori e diverse attività della vita, non può essere gestita dal mercato. Avessimo dovuto aspettare il mercato, saremmo morti tutti… Lo Stato è importante, ma ha tutta una serie di deformazioni e distorsioni. Bisogna imparare il metodo della complessità, che significa come i diversi aspetti che formano la nostra vita sono collegati l’uno all’altro. Bisogna cioè che tutti facciano lo sforzo di superare il punto di vista particolare del proprio singolo interesse, ambito, settore e impariamo a partire dalle amministrazioni ma anche dalle imprese a lavorare con questo sguardo. Tutto è connesso. Questo è un punto culturale molto importante, altrimenti si mette una pezza da una parte e il vestito si rompe da un’altra.

Non è semplice.

È oggettivamente difficile, non è il generico «vogliamoci bene, siamo sulla stessa barca», ma si deve tradurre in questa capacità di affrontare i problemi nelle relazioni tra i diversi aspetti. Quindi le imprese devono pensare alla parte economica ma sono integrate rispetto alla vita familiare, rispetto alla questione sanitaria ad esempio o al tema della formazione. Anche le scuole devono riorganizzarsi tenendo conto della vita familiare, gli aspetti sanitari e i temi legati al mercato del lavoro. Le amministrazioni invece di badare ai codicilli devono imparare a usare il problem solving e a essere in grado di guardare i risultati e non di badare solo alle procedure. Questa crisi, essendo di sistema, ha bisogno invece di attori, soggetti Individuali e istituzionali, ciascuno dei quali fa la propria parte, ma tiene conto delle relazioni che ha con ciò che lo circonda.

Ciascuno di noi ha vissuto, pur con molti elementi comuni, la pandemia con diverse reazioni. Come le legge lei, e cosa porterà questo nel nostro futuro?

Guardi, penso anche all’intervento del sindaco di Milano che francamente mi è parso un po’ eccessivo. Credo che essere stati reclusi in casa per due mesi sia un’esperienza che nessuno ha mai fatto. Quindi si reagisce in tanti modi. Da una parte come è successo ai Navigli, avendo voglia di dire «è tutto finito», reazione che va controllata e ricomposta, ma ci vuole anche un minimo di tolleranza, se no è un carcere. Dall’altra, c’è chi reagisce barricandosi in casa. Sono i due estremi. L’ha detto Conte varie volte: dobbiamo imparare a vivere una fase della nostra vita convivendo con la possibilità del contagio. Che significa avere una sana paura, che non deve diventare però blocco, ma responsabilità. Forse eravamo sbagliati prima.

In che senso?

Adesso c’è una particolare incidenza della malattia, ma è la condizione umana che è esposta al male, al dolore, alla morte. Vivere con questo sentimento del fatto che la vita possa terminare, nella misura in cui non ce ne facciamo schiacciare, ci rende più umani. È una cosa sana. Come sociologo capisco benissimo che possa creare tantissimi squilibri e tanti effetti problematici, sul piano sociale. Tuttavia, su un piano diverso questa consapevolezza ci rende responsabili gli uni degli altri e consapevoli dei limiti della nostra potenza individuale. Insomma, è una esperienza che ci riporta con i piedi sulla Terra, ci restituisce il senso che siamo tutti mortali.

E anche che non siamo da soli: la natura si è ripresa i suoi spazi. Anche di questo dobbiamo ricordarci?

Non c’è dubbio. Quindi parte di convivenza con il virus è una fase di apprendimento, forse di rinsavimento della nostra cultura, che ha tante distorsioni. È un’occasione per ritornare in noi. Un processo collettivo complesso di apprendimento.

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