Salute&Benessere
Intervista a Giuseppe Remuzzi
«Dovevano schierare i medici
Ma non ce n’è stato il tempo»

Il direttore del “Mario Negri”: «Un’epidemia si combatte tra la gente, l’ospedale arriva dopo».«Ma i professionisti sul territorio non erano protetti, mancava l’ossigeno... All’estero? Non hanno fatto meglio»

«Dietro al coronavirus c’è il primato dell’uomo sulla natura che ha finito per non rispettare più nemmeno i vincoli posti dal buon senso. L’aveva sottolineato tempo fa Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato Sì”, lo dice adesso il ministro dell’ambiente tedesco: se non avremo attenzione all’ecosistema e al microambiente, e finché metteremo sempre gli interessi della nostra specie al centro di tutto, le epidemie non si fermeranno». Il professor Giuseppe Remuzzi, uno tra gli scienziati italiani più conosciuti al mondo, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, richiama le responsabilità dell’uomo dietro la terribile pandemia.

Andranno ripensati anche i rapporti con gli animali?

Un’analisi pubblicata in questi giorni da Landscape Ecology fa vedere come la perdita delle foreste tropicali in Uganda mette la gente a rischio di avere contatti più vicini con animali selvatici, particolarmente i primati che trasmettono i virus all’uomo proprio come è stato per l’Aids. E non è solo in Africa che succedono queste cose, succedono anche in altre parti del mondo. L’epidemia di Covid-19 dovrebbe quantomeno far ripensare ai rapporti fra l’uomo e gli animali selvatici.

E la scienza?

La scienza non è mai stata ai primi posti nella considerazione del pubblico, ma nemmeno i politici nel fare le leggi tengono conto sempre delle ragioni della scienza. È così da noi, è cosi negli Stati Uniti. La scienza, prima di tutto, sperimenta, poi analizza in modo critico tutti i dati a disposizione, trova una spiegazione ad eventuali inconsistenze e la discussione è sempre aperta, senza pregiudizi, basata per quanto possibile sull’evidenza. La scienza si fonda sul dubbio, sul mettere sempre in discussione quello che si sapeva prima, sull’infrangere dogmi. Insomma, le verità della scienza non sono assolute, valgono in quel momento ma possono cambiare in rapporto alla tecnologia e alle nuove conoscenze. E ci sono casi, l’epidemia in corso è uno di questi, in cui nemmeno gli scienziati hanno le idee chiare.

Che idea si è fatto su Covid-19?

Alla fine di dicembre era chiaro che l’epidemia di SARS-CoV-2 partita da Wuhan che aveva messo in ginocchio la provincia di Hubei e si stava diffondendo in tutta la Cina sarebbe arrivata da noi. Il primo problema che gli esperti si sono trovati ad affrontare è stato quello di ridurre la trasmissione tra la popolazione in modo da avere un numero di persone da trattare non tale da mettere improvvisamente in crisi la capacità degli ospedali di farvi fronte. È stato giusto impedire il traffico aereo tra Italia e Cina quando era chiaro che il virus veniva da Wuhan? Forse, ma di sicuro non sappiamo nemmeno questo. È probabile che chi era in Cina e voleva tornare in Italia (italiani o cinesi che fossero) sia tornato comunque. Quasi certamente utilizzando altri scali, molti sono tornati da Francoforte e altri da Mosca. E così il virus ha continuato a circolare per molte settimane senza che fossimo capaci di intercettarlo.

È stato giusto chiudere le scuole?

Sembrerebbe di sì. Pensare che un bambino possa sempre lavarsi le mani in modo maniacale come dovrebbe fare chi non vuole infettarsi, starnutire nel gomito e non toccarsi la faccia è impossibile. Tra l’altro i ragazzi sono di solito in ambienti chiusi relativamente piccoli, come si fa a farli sedere a distanza uno dall’altro? Se stanno insieme si contagiano tra loro, se cambiano classe ne contagiano altri ancora, e a scuola ci sono anche gli adulti: insegnanti, cuochi eccetera. D’altra parte ci sono delle evidenze importanti basate su pandemie precedenti che chiudere le scuole riduca fino al 50 per cento l’incidenza di nuovi casi. Ma ci sono anche degli aspetti negativi nel chiudere le scuole, e non solo il fatto che compromette una parte del programma di educazione dei ragazzi. Con le scuole chiuse i ragazzi stanno a casa dei nonni o con i nonni e così si mette a rischio la salute delle persone più anziane: i bambini trasportano il virus come tutti gli altri, loro non si ammalano ma contagiano gli adulti. Con i bambini a casa, gli infermieri - che sono quasi tutte infermiere e quasi tutte mamme - hanno problemi a conciliare le esigenze del lavoro con quelle della famiglia e questo compromette ancora di più l’organizzazione degli ospedali che in questo periodo soffre già moltissimo.

E i tamponi? Farli a tutti? Non farli a nessuno? Farli a qualcuno?

Adesso gli epidemiologi inglesi vorrebbero fare 60 milioni di test in sei giorni, ma questo significa acquistare reagenti e avere abbastanza tamponi per fare il test, mobilitare tantissimi laboratori, coinvolgere i medici di famiglia, gli uffici postali, altre compagnie come Amazon, per esempio. Da noi non sarebbe fattibile, ma dubito in ogni caso che questa cosa possa funzionare, perché dopo aver testato 60 milioni di inglesi cosa si fa? Chi è negativo oggi può essere positivo domani e allora si ricomincia da capo dedicando soldi, energie e persone a fare il tampone? Forse la cosa migliore in realtà è focalizzarsi sulle categorie che sono a contatto con il pubblico, certamente medici e infermieri e personale che opera nelle organizzazioni di salute, certamente chi lavora nei servizi aperti al pubblico, le cassiere dei supermercati per esempio, chi lavora nelle farmacie, chi presta servizio sui mezzi pubblici, le forze dell’ordine e il personale dei cantieri.

E poi?

Sarebbe importante fare anche da noi quello che è stato fatto in Corea: identificare tutte le persone che hanno avuto contatti con qualcuno positivo o ammalato e isolarle per 15 giorni. Ma per far questo in Corea sono serviti 1.800 team di cinque persone ciascuno, un’organizzazione impressionante fatta di “app” e droni per rintracciare tutte le persone, poi identificarle, fare loro il tampone e tenere in isolamento quelle che risultano essere positive. Noi lo sapremo fare davvero? Secondo un lavoro pubblicato su Lancet, il 13 marzo gli ospedali della Lombardia sono arrivati ad aver bisogno di 2.500 posti di terapia intensiva - solo per malati Covid- che avevamo previsto sarebbero diventati 4.000 ai primi di aprile; è stato proprio così. Ma intanto gli ospedali hanno dovuto stravolgere il loro modo di operare, trovare medici e infermieri, acquisire posti in terapia intensiva, respiratori e personale. Se avessimo avuto tempo per prepararci avremmo potuto organizzarci molto meglio e molto prima. Negli Stati Uniti sì che l’hanno avuto il tempo, almeno due mesi. Ma nemmeno loro sono riusciti a organizzarsi come si sarebbe dovuto: adesso i medici sono disperati anche lì, non trovano più ventilatori e la strategia per costruirne, anche in un Paese ricco come il loro, si sta rivelando piena di difficoltà.

Ma le epidemie si combattono con i farmaci?

Per lo meno fino a che non c’è il vaccino, si combattono in mezzo alla gente, gli ospedali arrivano dopo. Quello che avremmo potuto fare, se ne avessimo avuto il tempo, poteva essere mobilitare i 50mila medici di famiglia del nostro sistema sanitario nazionale (che però sono liberi professionisti convenzionati e quindi lo strumento per organizzarli a fronteggiare l’epidemia non c’è) e dotarli dei presidi di protezione individuale che gli consentissero di andare a casa di chi non stava bene. Ma le protezioni non c’erano, e allora quello che si poteva fare lo si è fatto al telefono, altri a casa della gente ci sono andati senza protezione e molti di loro sono morti. Nei Paesi che sono più avanti di noi, che hanno avuto più tempo, c’erano le protezioni individuali? In Inghilterra certamente no, negli Stati Uniti non pare proprio. Le epidemie si combattono in mezzo alla gente, ammesso che in ciascuna casa dove c’è un malato ci possa essere la sua brava bombola di ossigeno, ma di ossigeno non ce n’è abbastanza, la pandemia è arrivata troppo in fretta, troppi malati tutti insieme.

Non è che il resto del mondo abbia fatto meglio di noi, dunque.

“A una pandemia così non eravamo proprio preparati, lo saranno certamente gli inglesi” pensavo tra me e me qualche giorno fa. “A Londra c’è l’Institute of Hygiene and Tropical Medicine, dove lavorano i più grandi esperti di salute pubblica e i più grandi epidemiologi del mondo. Loro non si faranno certo cogliere impreparati, avranno già previsto tutto”. Ma non è stato così. Il direttore di Lancet il 28 marzo racconta come il sistema sanitario inglese si sia fatto cogliere completamente impreparato. “Dovevano assicurarsi per tempo di avere i farmaci, i sistemi di protezioni individuale, di avere abbastanza ospedali dedicati, abbastanza respiratori, medici, infermieri, e invece?” si chiede Richard Horton. Loro avevano tutto il tempo per moltiplicare la capacità di fare tamponi e stabilire programmi di formazione e linee guida per proteggere il loro staff, quello del servizio sanitario nazionale. “I migliori epidemiologi, i migliori esperti di salute pubblica del mondo non hanno fatto niente di tutto questo” scrive il Lancet. Il risultato è stato caos e panico anche nel servizio sanitario inglese.

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