Economia / Como cintura
Giovedì 30 Ottobre 2025
«Distretto tessile di Como. Nessuno si salva da solo»
Intervista a Francesco Gentili, Ceo di Gentili Mosconi, e la crisi del comparto del tessile abbigliamento. La scelta della Borsa pensando al futuro dell’azienda e gli investimenti per le acquisizioni «Operazioni per difendere la filiera, realtà rimaste indipendenti e a disposizione del territorio»
Dalla scelta strategica di quotarsi in Borsa alla decisione di crescere attraverso acquisizioni, Francesco Gentili, Ceo di Gentili Mosconi, traccia la rotta della sua azienda, sottolineando l’importanza degli investimenti, della cultura e della coesione territoriale come unica “medicina” contro la crisi.
La fase post-pandemica è stata caratterizzata da un’esplosione dei consumi, ma oggi il mercato mostra una chiara contrazione. Come descriverebbe l’attuale clima di incertezza e qual è la vostra “ricetta” per navigare nella tempesta?
Dopo un’euforia generale post pandemica che ha scatenato la ripresa di mille settori – non solo la moda, ma anche il turismo e la ristorazione – siamo entrati in una fase di assestamento. La frenata ha un insieme di cause concatenate. Abbiamo il problema delle guerre, che creano un’incertezza globale, unita a un futuro che non è chiaro, né nitido. Nessuno ha la ricetta giusta, lo dico chiaramente. Quello che vivo io, e che mi sento di definire l’unica medicina, è la necessità di continuare a investire e migliorarsi. Dobbiamo stare costantemente al timone, con la testa sulle spalle, e interrogarci: ciò che era assodato ieri è ancora valido per il mercato di oggi? Bisogna mettere in dubbio il proprio approccio, perché in un momento in cui la moda cambia, l’immobilità è il vero rischio.
Ha parlato di investimenti. Quali sono i pilastri che definiscono la competitività del vostro Gruppo e su cui concentrate le risorse in questa fase critica?
Oggi ci sono tre elementi che non possono essere divisi. Un tempo potevi avere un prodotto straordinario e compensavi un servizio scadente o un prezzo alto. Oggi non funziona più così. Il prodotto e il servizio hanno raggiunto pari rilievo. Non puoi eccellere in uno e trascurare l’altro. Il prezzo è altrettanto importante, ma in definitiva è una conseguenza della qualità del prodotto e del servizio offerto. La nostra strategia è investire in tutti e tre i settori senza rinunciare ai margini, accettando di pareggiare o soffrire leggermente a fronte di forti investimenti in tecnologia e risorse umane.
Investire nel prodotto e nel servizio significa anche innovare. In che modo un’azienda tessile come la vostra coniuga tradizione e innovazione, soprattutto per quanto riguarda la tecnologia e l’attrazione di talenti?
Investire nel prodotto significa anzitutto tecnologia e innovazione, ma nel nostro caso significa anche ispirazione e creatività. Per quanto riguarda l’attrazione e la crescita dei talenti, la vera forza è stata proprio investire sulla manodopera. Non è un cliché, è l’unica via. E in parallelo, è fondamentale tornare a parlare di cultura del nostro lavoro e del nostro mondo. È questo l’obiettivo profondo della nostra Fondazione, un progetto che ritengo strategico per contestualizzare la nostra eccellenza e renderla attraente per i giovani.
La vostra operazione di acquisizione e rilancio di una stamperia (la Stamperia Emme di Fino Mornasco) è emblematica della vostra filosofia. Perché ha scelto di non “metterla in pancia” al Gruppo, lasciandola indipendente e a disposizione di terzi?
L’esigenza di prendere una stamperia di proprietà era duplice: alzare il livello qualitativo e investire in macchinari e persone. Ma l’ho lasciata indipendente perché la domanda che mi ero dato nel 2015 era: “C’è bisogno di un’altra azienda integrata stile grandi storici del territorio?” La mia risposta fu no e credo di non avere sbagliato. C’è bisogno di aziende radicate nel distretto, dobbiamo difendere le micro-aziende e i terzisti, affinché rimangano a disposizione di tutti. Questa è una vera difesa del territorio. Oggi la stamperia, che abbiamo rilanciato con un investimento di 6,5 milioni, lavora al 70% per noi e per il 30% per terzi, il che è un grande motivo di orgoglio.
Nonostante la crisi dello stampato, come si mantiene il ritmo di lavoro nella stamperia? Avete dovuto ricorrere alla cassa integrazione in questo periodo di rallentamento?
Manteniamo ancora il turno di notte, e questo, in un momento di crisi dello stampato, non è affatto un particolare di poco conto. Non l’abbiamo tenuto per tutto l’anno, ma per buona parte. Non abbiamo fatto cassa integrazione. L’abbiamo richiesta per precauzione, ma abbiamo utilizzato forse sei o otto ore in totale, davvero pochissimo. Questo è dovuto anche al nostro particolare dinamismo e alla volontà di mettere in dubbio ogni giorno il nostro lavoro chiedendoci sempre se la nostra struttura e il nostro prodotto siano ancora validi per il mercato attuale.
Un altro tassello fondamentale è stata l’acquisizione della Tintoria Comacina. In che modo questa operazione riflette la sua strategia di “fare squadra” con il territorio? E a che punto è il suo risanamento finanziario?
L’operazione Tintoria Comacina riflette perfettamente il mio credo: “nessuno si salva da solo”. È un momento critico dove è importante costruire ponti e dialoghi. Siamo intervenuti in un’azienda che perdeva tanti soldi. In un momento di crisi, la tentazione poteva essere quella di tirare i remi in barca, ma invece abbiamo messo sul piatto 4 milioni di investimenti. Riusciremo a portarla in pareggio quest’anno per poi iniziare a farla marginare il prossimo. Anche qui è motivo di soddisfazione che la Tintoria Comacina lavori per il 70% per altri e solo il 30% per noi, dimostrando che è tornata ad essere un asset per il distretto.
L’acquisizione di un’altra azienda (Manifatture Tessili Bianchi), specializzata nel tinto unito, non era inizialmente prevista nel suo masterplan. Che ruolo gioca questo converter all’interno del Gruppo e qual è la sua particolarità finanziaria?
L’acquisizione è stata un’opportunità che ci ha dato la Borsa, perché non l’abbiamo cercata noi; l’azienda si è proposta. È un converter puro che fa solo tinto unito, una fascia che noi non coprivamo. La particolarità finanziaria è che il proprietario non ha voluto soldi, ma quote della nostra società, pagando un prezzo molto elevato e firmando un accordo di blocco di cinque anni. Questo è un segnale di grande fiducia nell’operazione e nella crescita futura dell’azienda quotata.
Il disegno strategico che ha presentato agli investitori prevedeva anche l’acquisizione di una tessitura. A che punto siete nella ricerca di questo ultimo “mattone” e quale tipo di azienda state cercando?
La tessitura è l’ultima promessa fatta agli investitori, ed è sicuramente l’acquisizione più importante e più complessa. Stiamo cercando un’azienda che sia multifunzionale, adatta per sciarperia, cashmere e per diversi tipi di prodotto, inclusi i tessuti operati. La ricerca non è facile. Ho due o tre dossier sul tavolo, ma anche in questo caso, la mia politica è che l’azienda acquisita rimarrà indipendente per continuare ad essere a disposizione del territorio e del mercato terzista.
Lei ha detto che non è vero che si fa fatica a trovare la manodopera, ma che si fa fatica a “crescerla”. Come si affronta questa sfida nel reclutamento dei giovani?
I giovani di oggi non hanno lo stesso spirito di sacrificio della nostra generazione, e forse, in parte, è un bene. Ma hanno bisogno di essere presi per mano. Hanno bisogno di una direzione chiara, di un percorso di crescita definito: oggi operaio, domani capo turno, dopodomani magari direttore. Quando tu gli metti quel seme, riesci a coinvolgerli e a renderli orgogliosi. È fondamentale spiegare loro il prodotto, l’heritage e le radici del nostro lavoro, altrimenti non si crea quel legame di cui abbiamo bisogno.
In che modo la vostra collaborazione con realtà formative locali, come l’associazione Cometa, contribuisce a questo processo di crescita e abbassamento dell’età media aziendale?
La collaborazione con Cometa ci ha dato grandi soddisfazioni. Ci prendiamo dei ragazzi, li alleviamo, li proviamo su tutti i reparti. Questo ci permette di inserirli gradualmente e di farli crescere con una mentalità aziendale. È una cosa che ha funzionato benissimo e ha contribuito in modo significativo a mantenere una forza lavoro con un’età media molto bassa in tutta la filiera produttiva.
La divisione Casa (Home) è nata nel 2005. Nonostante rappresenti solo una piccola percentuale del fatturato, che valore strategico ha nel fidelizzare i grandi marchi del lusso?
La Casa. è vero, rappresenta circa il 2-3% del nostro fatturato, ma è una nicchia di grandissimo prestigio. Lavoriamo per clienti esclusivi, per le dimore private e per i grandi progetti di hospitality dei marchi più importanti. Il valore strategico è la fidelizzazione del cliente. Dare un prodotto diverso, che va dal tessuto per abbigliamento a quello per l’accessorio, fino al prodotto finito per la Casa, ti dà la possibilità di dialogare sempre con il cliente, anche se magari in una stagione non hai ordini sull’abbigliamento. Rimanere in contatto costante con il brand è cruciale.
La scelta di quotarsi in Borsa è stata una decisione profonda. Qual era il suo interrogativo principale in quel momento e come la Borsa risolve il problema della successione aziendale in Italia?
Il mio interrogativo principale, nato durante la pandemia, era sul futuro dell’azienda post-Francesco o post-Patrizia Mosconi. Il 95% delle aziende in Italia non arriva alla seconda generazione. Ho scartato l’ipotesi dei fondi di private equity e della vendita a concorrenti. La decisione della Borsa è stata la soluzione naturale. È il primo mattone per il futuro, perché mette l’azienda al riparo dai litigi familiari che sono una delle principali cause di morte aziendale. Un domani i soci potranno eventualmente mettere le loro quote sul mercato, e l’azienda potrà continuare senza traumi.
Qual è il vantaggio principale della quotazione rispetto alla cessione di quote di maggioranza a un grande cliente, un percorso seguito da alcuni vostri competitor?
Sono due scelte molto diverse. La Borsa ti lascia, se vuoi, più indipendente. È vero, sei degli investitori, ma non hai un socio al 30%; ne hai tanti al 2,5%. La Borsa richiede un rigore che a noi piace, perché è un’assicurazione di trasparenza e solidità per i nostri clienti.
Quanto è oneroso il rigore imposto dalla Borsa, e in che modo questo rigore si traduce in un valore percepito dai vostri clienti internazionali?
Il percorso della Borsa è complesso e richiede un continuo sforzo. Noi, ad esempio, comunichiamo volontariamente la trimestrale, anche se non siamo obbligati. Ma ripeto, a noi questo rigore piace. Ci obbliga a essere trasparenti e a rispettare standard che altrimenti non avremmo. Questa è l’assicurazione che solo la Borsa ti può dare in termini di trasparenza e solidità operativa, ed è un elemento di grande prestigio per i nostri clienti di fascia alta.
Lei ha voluto la Fondazione per contrastare il fatto che il patrimonio culturale del tessile a Como sia “dimenticato e poco espresso”. Cosa si potrebbe fare per rispolverarlo e rinvigorirlo a livello distrettuale?
Il patrimonio c’è, ma è come un tesoro nascosto. Bisognerebbe tornare tutti insieme a parlare di cultura del tessile, a rinvigorire questa tradizione. Parlando con i colleghi, abbiamo detto che sarebbe bello tornare a fare un evento come la storica IdeaComo: una nicchia di piccolissime aziende solo comasche. Non è un chiudersi, è un tornare a parlare di cultura e di eccellenza.
Quale potenziale avrebbe un ritorno di un evento come Idea Como, soprattutto considerando l’esplosione del brand turistico “Lago di Como”?
Avrebbe una cassa di risonanza pazzesca. Il brand Lago di Como è al top nel mondo turistico. Organizzare un evento che sia un omaggio al territorio, magari un one-spot come si usa ora, sfruttando un luogo iconico del Lago, non sarebbe un chiudere le porte a Milano, ma sarebbe un omaggio al territorio e, soprattutto, avrebbe una risonanza mediatica incredibile, grazie al traino del turismo di lusso.
Torniamo al paradosso del lusso. Lei afferma che la moda sta perdendo il “cliente medio” (quello che genera il fatturato) e che i grandi marchi si dovranno ridimensionare. Qual è la conseguenza di questo fenomeno sul settore e sui vostri clienti?
La moda ha perso il cliente medio, ed è un problema perché sono loro che tengono in piedi i bilanci. Il cliente top, quello che spende centinaia di migliaia di euro all’anno, c’è ancora, anzi spende di più. Ma il paradosso è che questi pochi clienti comprano quel brand perché la massa sa che quella roba costa e fa status. Quando non hai la massa che lo riconosce, del resto, anche l’ultra-ricco perde lo stimolo. Questo porta a un ridimensionamento: molte aziende si ridimensioneranno tantissimo, e si cercano vie alternative come l’espansione nell’Hospitality o nel Beauty per mantenere il brand vivo.
Alla luce di queste dinamiche, vale ancora la pena, per un giovane, sognare e investire il proprio futuro nel settore tessile lariano?
Assolutamente sì. Il settore non rivivrà i fasti degli anni ’80 o ’90, ma ciò che rimarrà a Como è una grossa nicchia di un livello altissimo. Ci sarà un ridimensionamento generale nel comparto, non parlo solo di Como, ma di tutti i distretti. Caleranno i numeri anche dei grandi marchi. Ma la nostra tradizione di eccellenza e la capacità di verticalizzare la qualità faranno sì che il distretto comasco rimanga un punto di riferimento globale in questa nicchia super lusso. È un futuro di grande qualità, se si è disposti a investire e a soffrire in questo momento.
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