Il silenzio imposto
a chi salva le vite

Per onorare il dolore e la sofferenza bisognerebbe sempre celebrare la vita. Per questo motivo sui giornali leggete le storie di chi, nei periodi più difficili e tragici, fa della resilienza la sua arma migliore e si mette al servizio degli altri. Non si tratta di eroismo, né di esibizionismo fine a sé stesso, ma del bisogno che abbiamo tutti noi di aggrapparci, nei periodi peggiori, a esempi positivi da seguire. A testimonianze che ci strappino dal pessimismo, per regalarci un orizzonte di speranza.

Dall’inizio di questa devastante emergenza abbiamo cercato di raccogliere e scrivere quante più storie e testimonianze possibili: il giovane che fa la spesa per i vicini di casa più anziani, le libraie che leggono un libro sui social per i loro clienti, le maestre che inviano tutte le sere la storia della buonanotte agli alunni della loro classe, i commercianti che tornano a fare il porta a porta aggiungendo alla propria spesa anche qualche commissione in più.

Sono mancate, nelle storie che vi abbiamo raccontato, quelle di chi in queste settimane è in prima linea per difendere la nostra salute: medici, infermieri, operatori sanitari, volontari del soccorso. Purtroppo, nonostante le nostre ripetute richieste, ospedali e aziende sanitarie pubbliche sul territorio hanno ricevuto l’ordine tassativo dalla Regione di non far parlare nessuno. Una scelta incomprensibile, che non è il momento storico di criticare. Ci sarà tempo per farlo, nel caso.

Ma privare della voce chi, a rischio della propria salute, ogni giorno si cala in una sorta di girone dantesco del dolore e della sofferenza per difendere noi e i nostri cari dal maledetto virus, proprio non ci sembrava giusto. Così in questi giorni siamo riusciti a fare piccoli strappi alle regole facendo parlare sanitari di strutture private (meno vincolati dai divieti regionali) e oggi, nelle pagine in cui raccontiamo l’ennesima giornata di lotta al virus, lo facciamo in una forma differente: prendendo le confidenze di medici e infermieri che lavorano al Sant’Anna e riproponendoveli come un racconto in prima persona. Niente nomi, per tutelare chi (e sono molti) in questi giorni ci ha aperto il cuore. Ma valga la nostra garanzia che ciò che leggerete è il resoconto fedele di quelle testimonianze. Nella speranza che la regola del silenzio, imposta dalla politica, venga presto meno e che oltre le voci si possa presto anche mostrare i volti mascherati di chi, quotidianamente, si divide tra una stretta di mano ai pazienti destinati alla morte e la lotta per salvare quelli che possono essere salvati, poter celebrare la vita di queste migliaia di persone è un dovere.

Ma le celebrazioni fine a se stesse valgono il giusto: ovvero il tempo di sfogliare pagina. Ed è quindi doveroso ricordare che quelli che ora sono sul fronte per difendere la nostra salute, quelli che rischiano ogni minuto il contagio per aiutarci, gli infermieri del triage del pronto soccorso, i medici dei reparti di emergenza, il personale sanitario delle rianimazioni, reparti che da sempre sono l’uscio tra la vita e la morte, sono gli stessi infermieri, medici e personale sanitario che fino a ieri insultavamo perché in pronto soccorso non davano priorità alla nostra caviglia slogata, che denunciavamo alla magistratura perché non erano riusciti a fare il miracolo e salvare la vita a un nostro caro, che accusavamo di non fare abbastanza per noi e di fare troppo per gli altri.

Passata l’emergenza, non dimentichiamo che quel “gli altri” potremmo in realtà essere noi. Le persone che amiamo.

Non facciamo evaporare la memoria di tutto quello che al Sant’Anna, come al Valduce, a Gravedona, a Menaggio, al Fatebenefratelli stanno facendo in questi giorni.

Il nostro grazie a tutti loro valga oggi, nei giorni dell’emergenza, come domani.

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