Il virus e la nostra
verginità perduta

L’esempio non è proprio un modello di buon gusto ed eleganza oxfordiana, ma forse può fornire un’idea degli abissi nei quali siamo sprofondati. Circa un ventennio fa, in una puntata di un programma televisivo che forse alcuni ricorderanno, “Il caso Scafroglia”, ideato e condotto da Corrado Guzzanti, lo stesso Guzzanti, al culmine di un surreale dialogo sulla nequizia dei tempi con un finto sacerdote impersonato da Marco Marzocca, proruppe nella seguente esclamazione: «Anche Jessica Rizzo ha detto che bisogna riscoprire il valore della verginità!». Ora, per chi non lo sapesse, Jessica Rizzo, oggi 55enne, era all’epoca una nota attrice di film pornografici. E ovviamente, per evidenti ragioni di bottega, non si era mai espressa a difesa del valore della verginità. La geniale provocazione ideata da Guzzanti, con la tagliente e corrosiva asciuttezza della grande comicità, andava a toccare un nervo scoperto di questa nostra società ipocrita e parolaia, che ha sviluppato la diabolica capacità di metabolizzare tutto, ma veramente tutto, per renderlo funzionale all’utilizzo di non si sa bene cosa.

La fatale conseguenza delle paure, inconfessate e inconfessabili, che si propagano con la medesima virulenza dell’epidemia, è che stiamo diventando tutti schizofrenici. E non si riesce nemmeno a capire dove finisce l’autentica schizofrenia e dove cominciano invece la menzogna e l’autoinganno. Poco più di due settimane fa, allo scoppio dell’emergenza legata al virus, con la conseguente e logica chiusura dei luoghi pubblici di ritrovo, in particolare i cinema e i teatri, si era levato un pressoché unanime coro di proteste da parte dei rappresentanti della cultura, con voci anche molto autorevoli che sostenevano l’assoluta imprescindibilità della cultura stessa in tempi di emergenza. Era un po’ un discorso da anime belle, che in ultima analisi non corrisponde neanche al vero, se non altro perché in tempi di emergenza, come ricordava giustamente Brecht, prima della “morale” (da intendersi in senso lato come cultura) vengono la pancia e la più negletta vita umana.

Resterebbe tuttavia da chiedersi se la più negletta vita umana -anzi, diciamolo con franchezza: la salute delle persone- sia più importante del denaro. Ma questo, forse, a proposito di ipocrisia, è un altro discorso che ci porterebbe molto lontano, magari fino ai tagli sconsiderati che in questi due ultimi decenni hanno duramente colpito il settore della sanità. La cosiddetta coscienza civile, per tornare alle parole di Brecht, ha un fondamentale presupposto: la pancia piena. Con la pancia vuota (o il timore della pancia vuota, come dimostrato dall’assalto ai supermercati) non c’è coscienza civile e non c’è nemmeno cultura, molto semplicemente perché ne mancano le condizioni. Si può anche riflettere all’infinito su una sinfonia di Mozart o un capitolo di Flaubert, ma per farlo ci sono tre presupposti irrinunciabili: salute fisica e mentale e, appunto, pancia piena.

Li ricordiamo tutti gli hashtag e le parole d’ordine di quel periodo (sembrano trascorsi interi secoli, e invece sono soltanto due misere settimane): usciamo di casa, dobbiamo ricominciare, la cultura non può fermarsi, non si può rinunciare alla socialità e così via. Tutte cose verissime, beninteso, ma in tempi normali, quando la pancia è piena e la salute collettiva non è a rischio. Poi, giorno dopo giorno, man mano che il quadro dell’epidemia assumeva connotazioni sempre più inquietanti, per giungere infine all’inevitabile e sacrosanta decisione di trasformare l’intera Italia in una zona rossa, si è levato un coro non meno unanime di quello di due settimane prima, ma di segno completamente opposto: visto che la socialità ci è negata, riscopriamo il valore della solitudine, della vita in famiglia, degli affetti che di solito, nella quotidiana corsa dietro il vento, tendiamo colpevolmente a trascurare. Tutte cose verissime, anche queste, ma non si può negare che l’insieme, in considerazione dell’immane e disperante tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi, produca un effetto involontariamente grottesco.

Ma come? Fino a due settimane fa il denaro, l’accumulo di beni in larghissima parte inutili e superflui, il profitto fine a se stesso e il calpestamento dei diritti dei più deboli erano un verbo diffusissimo, la solitudine e il raccoglimento quali condizioni indispensabili per il pensiero e la riflessione erano considerati peggio di una malattia, la parola “silenzio” era scomparsa dal vocabolario della nostra quotidianità. Adesso, invece, il denaro non conta più nulla, è lo sterco del demonio, e la tanto negletta interiorità si è trasformata in una specie di luogo sacro. Gli utilissimi quanto esiziali social-network sono diventati, tra le altre cose, un ricettacolo di tanti sacerdoti e sacerdotesse di questa nuova e imparaticcia religione. In fondo -questa, la nuovissima parola d’ordine-, non tutto il male viene per nuocere, perché questo cataclisma ci permette finalmente di guardare nella nostra interiorità e riscoprire i veri valori. Guardare nella nostra interiorità? E per vedere cosa? Per riscoprire quali veri valori? Siamo proprio sicuri che potrebbe esserci d’aiuto? Non è che magari ce ne ritrarremmo in preda al terrore del vuoto? E poi, se è davvero questione di recuperare la verginità perduta, il prezzo da pagare sembra francamente un po’ troppo alto.

Non bisogna tuttavia fraintendersi. In tempi di angoscia è assolutamente lecito nutrirsi di illusioni, mezze menzogne e mezze verità (in fondo lo si fa sempre, in maniera forse più blanda, anche in tempi normali). Quando ne usciremo, saremo sicuramente diversi, e migliori: è un’altra parola d’ordine che circola in questi giorni. È una bella speranza, che è giusto e doveroso coltivare. Ma al momento è solo una speranza. Nel caso non dovesse realizzarsi, vorrà purtroppo dire che siamo davvero irrecuperabili. Vivi, fortunatamente, ma anche definitivamente irrecuperabili.

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