Primavera in inverno
ma il tempo poi si vendica

“E la chiamano inverno, quest’inverno….”: è proprio vero che il mondo si sta ribaltando. Si rovesciano anche i versi della celebre canzone di Bruno Martino che tanti cuori fece battere molti anni fa, ormai. L’estate della canzone non era più possibile chiamarla estate perché la morosa se n’era andata e quindi anche il profumo del mare e il vento caldo non soffiavano più. Adesso invece questo inverno non è proprio un inverno perché da settimane il cielo è terso, il sole batte accecante, di pomeriggio la temperatura è primaverile. Sui dossi delle colline sono spuntate già le primule, forse anche le viole hanno cominciato ad affacciarsi nell’erba già verde smeraldo. È inverno questo? Qualche giorno fa le nostre contrade lariane sono state battute da un vento terribile (unico segno dell’inverno, quest’anno) e quindi si pensava, come raccontano le massime del mondo contadino, che dopo la bufera fredda arriva la neve. Invece a rischiarare i disastri combinati dalla bufera ha continuato a splendere il sole.

L’altro pomeriggio mia moglie e io ci siamo seduti per oltre un’ora, siamo stati seduti sul balcone a cogliere tepore e luce del sole che mandava i suoi raggi già obliqui ma ugualmente gagliardi. E c’erano pure un paio di farfalle gialle che svolazzavano rendendo ancora più giocondo quel “bagno di sole” fuori stagione. Con il mio faccione rivolto verso gli sfolgoranti dardi solari ho detto: «Qua rischiamo di prendere un’insolazione».

“E lo chiamano inverno….“, Ma in questo bizzarro inverno non c’è di mezzo una fidanzata, come nella canzone di Bruno Martino, che scompare e quindi distrugge una stagione, adesso il dramma caso mai è stato della povera merla che nei suoi “dì” di fine gennaio, le giornate che da che mondo è mondo sono state le più fredde dell’anno, si è trovata a svolazzare tra refoli di aria che più tiepida ed estiva non si poteva. Ecco quindi che il mondo si è capovolto. A questo punto emerge una delle tante saggezze del mondo contadino che ai “paisan” piaceva pronunciare quando d’inverno andavano tra i filari trovando i germogli già spuntati a febbraio, grazie al qualche giorno di sole fuori stagione, come adesso: «Ch’ el temp che le propri minga giōst». E aggiungevano passando all’italiano per dare maggiore forza alla loro amara previsione: «Lo pagheremo di sicuro più avanti, magari con qualche gelata a primavera avanzata». È lo stesso funesto pensiero che ho vissuto ieri sul balcone mentre le farfalle gialle mi svolazzavano intorno.

Bisogna infatti prendere in considerazione che, come avviene in tutti i casi della vita, l’allegria di questi caldi e chiari giorni invernali con il loro tepore primaverile, cela quasi sicuramente la probabilità di futuri tempi duri in fatto di clima. I vecchi contadini sapevano, infatti, che una volta o l’altra il tempo si vendicava. Quello che il tempo ci aveva regalato, poi l’avrebbe portato via, facendoci pagare pure un prezzo.

Ed è così che mentre mi rallegravo osservando le farfalle intorno al mio balcone, qualche sgomento mi attanagliava. Quindi non ero del tutto contento. Anzi ero un po’ anche molto preoccupato: «Come sarà la primavera? Come sarà l’estate».

Ed è così che in questi “inverni sbagliati” emerge anche qualche nostalgia.

Il rimpianto della neve: qualche fiocco di neve invece delle farfalle gialle sarebbe assai più in palla e più giusto. La neve ovviamente rompe le scatole ma sarebbe un piccolo grande regalo: non tanta, non come quella dell’85 che distrusse l’Elmepe e mi costrinse al cambio di tre paia di catene, ma almeno una spolverata bella bianca. Ho nostalgia pure del Segrino gelato e penso, questa volta senza rimpianti, dei geloni ai piedi quando ero bambino.

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