Tanta storia se ne va
Con i suoi protagonisti

Guardo fuori da un terrazzo di casa e vedo che le piante stanno fiorendo, il sole splende. Dalle strade arriva il rombo delle auto, di lontano il lago è una lastra di cristallo, sui prati passeggiano i soliti accompagnatori di cani che zampettano, cammina pian piano qualcuno che regge i sacchetti del supermercato. Poca gente, ma fin troppa per la minaccia invisibile che circola nell’aria. Tutto sembra (quasi) normale, niente è normale davvero. Ci toglie il respiro l’incubo delle troppe persone defunte, straziate dal male, senza aver avuto il conforto dell’ultima carezza dei propri cari.

Tutto questo illusorio scenario primaverile non può nascondere che un’intera generazione di testimoni dell’Italia postbellica è stata spazzata via, d’un tratto. Già, ma erano anziani, è stato osservato subito dai solleciti commentatori, quando la conta delle vittime cominciava ad essere pesante. Toccava a loro andarsene, prima dei figli, nipoti e pronipoti. Così nessuno ormai può raccontare quello che gli incanutiti avevano appreso dai loro genitori circa i milioni di morti (milioni, non migliaia) abbattuti da una micidiale ventata di un virus influenzale, la cosiddetta “spagnola”, che aveva falcidiato la popolazione mondiale. E poi, dicevano calcando la voce sui particolari più truci, che cosa avevano provato da bambini sotto il dominio nazista, con la fine della guerra e il crollo della repubblichetta di Salò, l’esecuzione dei gerarchi fascisti sulle sponde del Lario. Nemmeno potranno più rievocare gli anni del recupero di un paese a pezzi, le speranze di una recuperata libertà sociale, il miraggio, ahimè fallace, di un’Europa unita, capace di tener testa alle grandi potenze, in grado di far fronte comune alle necessità di ognuno.

Un passato tumultuoso, ricco di episodi, di recuperi e di fecondi inviti alla solidarietà nel momento dell’aggressione rivoluzionaria, del panico per gli attentati terroristici, di un raggiunto benessere che però non è riuscito a soddisfare tutti e delle ristrettezze economiche sopravvenute agli sprechi. Che passato da comprendere, da riassorbire ma comunque da tener presente per non commettere gli stessi errori e rinsaldare gli affetti, le alleanze, i buoni propositi di solidarietà. Quelli che sono stati protagonisti o semplici astanti di tanta storia comune non ci sono più, siamo rimasti soli e inermi a subire l’improvviso assalto di un morbo che non conoscevamo e forse è soltanto l’avvisaglia che ne seguiranno di simili, magari anche più potenti, ad abbattere la nostra incosciente sicurezza di essere preparati a qualunque guerra contro l’ignoto. Ci ha denudati, umiliati, costretti a rinchiuderci nei nostri abituri per scampare alla strage, mentre nei presidi sanitari che credevamo imbattibili generosi operatori sacrificavano la loro vita.

Certo, è Pasqua, chi ha fede e anche chi non ne ha si affida ad una implorata resurrezione, alla salvezza degli scampati, ad una ritrovata umanizzazione dei comportamenti, alla rinuncia finalmente di scontri e denunce reciproche di una dirigenza politica settaria e rancorosa. Il silenzio, la riflessione, il tupertu familiare in casa propria dovrebbe produrre almeno il ricorso al buonsenso, all’equilibrio, al rispetto delle opinioni , per affrontare insieme il tracollo economico, l’impoverimento che questa sciagura ha prodotto dovunque. Un solo dubbio mi tormenta, partecipando al pacificante augurio pasquale: che il rinchiudersi fra le pareti domestiche ci abbia indotto a considerare la realtà come una finzione dei media, correggibile spostando sguardo, pensiero e sentimenti come se fossero opera di una regia occulta. Come se il male, il dolore provenissero sempre da altrove, senza il nostro intervento. E se fosse possibile allontanarlo come uno spettacolo in cui siamo estranei, un pubblico da platea popolare.

Lo schermo televisivo, quest’occhio prolungato su ciò che accade fuori dalla nostra presenza, e che in casa apre una finestra sul mondo, potrebbe averci abituato ad evadere o a rinchiudere fatti e persone in un’orbita rappresentativa artificiosa, disumanizzante. E’ così che abbiamo accettato impavidi la visione delle corsie di ospedali invase dai letti dei sofferenti, o le drammatiche file di bare avviate all’incenerimento. O abbiamo subìto le insistite, replicate fino all’esasperazione, enumerazioni quotidiane di colpiti dal virus. Od ancora, più di qualunque altra occasione, ci siamo emozionati assistendo alla desolata, accorata preghiera di Papa Francesco in una piazza San Pietro flagellata dalla pioggia, davanti ad un Crocifisso immobile che pareva vivo e sanguinante, uomo prima che Dio, immolatosi per la nostra salvezza. Spettacolo anche quello, governato dalla perizia dei cameramen? Guai a non sentirsi, in quel momento, partecipi veri di una cerimonia dedicata ad un momento epocale, in cui c’eravamo tutti, proprio tutti, uniti da una fratellanza universale, da un collegiale destino.

© RIPRODUZIONE RISERVATA