Cristina, rapita e uccisa dalla ’ndrangheta. Svolta dopo 47 anni: c’è un altro “ideatore”, un boss calabrese

Eupilio Quattro indagati, il nome nuovo è quello di Giuseppe Morabito: fu lui il mandante. Decisiva un’impronta digitale del 2007. Ricostruiti la dinamica e i ruoli del rapimento

Cristina Mazzotti è stata sequestrata e ammazzata dalla ’ndrangheta su ordine del boss Giuseppe Morabito. Ne è convinta la Procura antimafia di Milano e la squadra mobile, che hanno chiuso una nuova tranche dell’indagine sul tragico rapimento di quasi cinquant’anni fa a Eupilio notificando quattro avvisi di garanzia ad altrettanti presunti sequestratori: Morabito, 78 anni, originario di Africo ma residente a Tradate; Giuseppe Calabrò, detto u’ dutturicchiu, che all’epoca aveva 25 anni e che successivamente è diventato poi uno dei nomi di maggior peso della ’ndrangheta a Milano.

E ancora: Antonio Talia, 71 anni e Demetrio Latella, 68 anni. Nell’atto della Dda, non compare invece il nome dell’incensurato Antonio Romeo, detto «l’avvocato» e cognato di Calabrò: inizialmente indagato, per lui le accuse potrebbero essere archiviate.

L’atto d’accusa

L’avviso di chiusura indagini ripercorre la tragica notte del primo luglio 1975. Quando Latella, Calabrò e Talia, assieme ad altre persone rimaste sconosciute, a bordo di due auto raggiungevano Eupilio, dove la famiglia Mazzotti aveva una seconda casa. Verso l’1.30, ricevuto il segnale dell’arrivo della Mini Minor con a bordo la diciottenne Cristina e due suoi amici, entrarono in azione. Bloccando l’auto, costringendo Carlo Galli, Emanuela Lusari e Cristina Mazzotti a mettersi sul sedile posteriore. Quindi partirono alla volte di Appiano Gentile, dove legarono e narcotizzarono i due amici della diciottenne, incappucciarono lei e la portarono in una buca scavata nel terreno a Castelletto Ticino. Dove fu segregata in condizioni disumane. Dopo 28 giorni fu trasferita a Galliate, vicino a Novara, dove venne costretta a scrivere una lettera al padre con le istruzioni per il pagamento del riscatto. I soldi vennero consegnati da uno zio il primo agosto, quando Cristina però ormai era già morta. Il corpo fu ritrovato abbandonato nella discarica di Galliate un mese dopo.

Le indagini

Le indagini ebbero una prima svolta quando Libero Ballinari, uomo legato a Giuliano Angelini, il geometra che affittò la cascina dove fu realizzata la buca-prigionia di Cristina, tentò di ripulire la sua parte del riscatto in una banca svizzera. L’impiegata segnalò il versamento anomalo, e Ballinari fu arrestato. Iniziò a collaborare facendo i nomi dei complici: oltre ad Angelini, Gianni Geroldi, che occultò il cadavere, e Achille Gaetano.

Si scoprono i legami con la ’ndrangheta. Fino a quando nel 2007 un’impronta digitale fu attribuita a Demetrio Latella, che ammise di essere stato uno dei sequestratori e chiamò in causa altre due persone. Da qui l’indagine, chiusa con l’indicazione di un nuovo mandante oltre al boss (deceduto) Giacomo Zagari.

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