La Nostra Famiglia in Sudan da 40 anni. Ovci, punto di raccolta per la fuga: «La sofferenza maggiore? Lasciare le persone»

Il presidio Rita Giglio ha lasciato il Sud Sudan. La direttrice Piantalunga: «Rete di solidarietà»

«La sofferenza maggiore? Lasciare le persone». Rita Giglio, vicepresidente Ovci, era a Juba, capitale del Sud Sudan. Anche lei, insieme a Manuela Vittor, è rientrata in Italia con un volo quasi contemporaneo a quello organizzato dalla Farnesina per i cooperanti italiani a Khartum. Sette, per la precisione quelli afferenti all’Ovci. Si tratta di Tatiana Tavano, Stefano Fagnani, Lorenzo Rigo, Giulia Dal Cin, Sebastiano Mazzotta, oltre a Martina Marsonet.

L’organismo, che ha sede a Ponte Lambro nel Comasco, è stato fondato nel 1982 (per iniziativa de La Nostra Famiglia di Bosisio Parini) e un anno dopo sono iniziate le attività a Juba, nell’attuale Sud Sudan.

A Khartum le attività Ovci sono iniziate nel 1999, a partire dall’area di Hodurman. Dapprima si è trattato di far conoscere la problematica della disabilità e poi, nel 2004, con una Ong locale (Us-ratuna, che significa appunto “La nostra famiglia”), avviare un percorso di formazione professionale per ragazzi disabili, con laboratori di panificazione, ceramica, carta riciclata, computer. In quarant’anni il progetto è stato nutrito da oltre settecento volontari italiani, tutti afferenti all’Ovci.

«In queste situazioni è importante attenersi alle regole dell’ambasciata: sono loro i tutori della nostra sicurezza - riflette Rita Giglio, tornata a Ponte Lambro - Del resto, noi non siamo una Ong che lavora sull’emergenza, ma su un’attività quotidiana di cura e riabilitazione di bambini disabili. Incompatibile, insomma, con un conflitto che costringe le persone locali a stare a casa. Rimanere vorrebbe dire restare chiusi in casa, e magari in pericolo di vita».

«I contatti? Fortunatamente non sono mai mancati - prosegue - Noi stessi, da Juba, abbiamo parlato regolarmente con i volontari di Khartum, e loro con l’Italia. È stato molto importante. Passaggi di consegne? Non siamo riusciti a lasciarne, è stato tutto troppo rapido. Abbiamo semplicemente lasciato le chiavi delle strutture a nostri operatori che abitavano vicini. La sofferenza è sempre quella di lasciare le persone. È una sofferenza che ciascuno di noi porta nel cuore, pur nel sollievo di essere sani e salvi a casa».

A seguire dall’Italia le vicende dei volontari Ovci in Sudan e Sud Sudan, la direttrice, Elisabetta Piantalunga. «Per noi è stato improvviso, nessuno si aspettava un conflitto simile. La nostra prima preoccupazione è stata quella di sentire i nostri collaboratori in Sudan, far sentire loro la nostra vicinanza. Sono stati bravi, sempre uniti. Il gruppetto di sei si è poi ampliato, visto che nei giorni successivi hanno trovato rifugio da noi anche tre coreani, un americano e un’operatrice sudanese dell’Onu. Non solo, la struttura Ovci è stata indicata dall’ambasciata italiana come punto di raccolta per gli italiani da evacuare. I problemi, certo, non sono mancati. Non c’erano certezze per quanto riguarda l’elettricità, la possibilità di comunicare, ma Internet si è rivelata un grande supporto, sia per comunicare con noi e l’ambasciata, sia per creare una rete di solidarietà sulle necessità principali. Il futuro? Una nostra collaboratrice, mentre veniva via, mi ha scritto di quanta tristezza stesse provando in quegli istanti. Non c’è prospettiva certa, speriamo si risolva tutto con delle trattative pace. È doloroso veder soffrire la stessa gente che ci ha sempre accolto e ascoltato».

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