La giustizia
malata
e l’etica
da ritrovare

«Cogliere le numerose tensioni che attraversano e hanno attraversato il corpo giudiziario» serve sia, come ha scritto la storica Francesca Sofia, a sfatare «la visione monolitica di una magistratura del tutto coesa al suo interno» e portare alla luce «gli scontri tra le opposte declinazioni del ruolo di magistrato», sia a saggiare lo stato di salute della democrazia italiana. I due aspetti hanno connessioni profonde, non soltanto perché il potere giudiziario è uno dei tre pilastri degli Stati di diritto, ma anche perché la nostra Costituzione prevede e tutela l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Indipendenza e autonomia sono, infatti, i due cardini essenziali che rovesciano totalmente il rapporto tra potere politico e ordine giudiziario esistente nel periodo regio. La Repubblica ha, tra i suoi “beni”, un ordine giudiziario indipendente.

Il Consiglio superiore della magistratura ha avuto e ha, in questo contesto, un ruolo essenziale, dovendo essere l’organo che garantisce l’autonomia della magistratura dal potere politico e, nel contempo, tutela l’operato dei singoli appartenenti all’ordine giudiziario. Non per caso, quindi, la Costituzione prevede che al vertice del CSM vi sia il presidente della Repubblica.

Le vicende dei sette decenni repubblicani hanno messo in rilievo le slabbrature subite nel tempo dal “modellino” previsto dalla Carta costituzionale. L’esercizio del potere di tutela si è trasformato sovente in lotta interna allo stesso corpo giudiziario, nel quale le pur legittime differenze di orientamento e di opinioni tra i singoli magistrati hanno dato luogo alla cristallizzazione di “correnti” sempre più marcatamente connotate dal punto di vista politico. Un processo probabilmente inevitabile, ma denso di lati oscuri e, soprattutto, foriero di fenomeni di degrado etico e professionale. La bufera politica e giudiziaria che ha colpito in modo clamoroso il Consiglio superiore della magistratura è il prodotto, maturo ma avvelenato, di lotte di potere che dovrebbero essere estranee a qualunque istituzione e, ancor più, ad organismi rappresentativi dei soggetti chiamati ad assicurare la giustizia. Di fronte a una situazione così purulenta il monito del presidente della Repubblica è stato fermissimo ed inequivocabile. Mattarella ha parlato – scegliendo, come sempre, di farlo in un’occasione istituzionale solenne – di «prassi inaccettabili», riferendosi al mercanteggiamento di carriere e posti di potere.

Al tempo stesso, ergendosi – in virtù del suo ruolo - a custode dell’autonomia della funzione giudiziaria, ha esortato la magistratura a farsi essa stessa carico di fermare la degenerazioni delle correnti nel CSM. L’invito del capo dello Stato non poteva essere più opportuno e dosato, poiché il cambiamento non può avvenire per opera di arrischiati interventi della politica, ma deve essere il frutto di un recupero di legittimazione che può derivare soltanto dall’abbandono delle logiche del carrierismo e delle spartizioni di potere tra correnti e sottocorrenti dell’organo di autogoverno della magistratura.

«È tempo di tenebre» si potrebbe dire, parafrasando Tommaso Campanella. E da esse si riuscirà ad uscire soltanto recuperando i valori di legalità, di integrità e di etica del servizio che non possono mancare nel quotidiano esercizio della giustizia. La legittimazione della magistratura deve passare necessariamente attraverso un lavacro profondo del quale sia essa stessa artefice. La politica potrà (e dovrà) fare la sua parte attraverso una calibrata riforma della giustizia. I due percorsi devono poter camminare in parallelo, affinché un ordine giudiziario “ripulito” possa svolgere il suo insostituibile compito in un quadro normativo rispettoso dell’autonomia della magistratura e orientato a favorire una “giustizia giusta”.

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