L’ultima chiamata
prima del baratro

L’ultima chiamata prima del baratro è quella del Colle. Drammatico il discorso di Mattarella, parole di uno statista in tempo di guerra. Guerra al Covid, e guerra alla povertà che rischia di dilagare nel paese nei prossimi mesi quando sarà inevitabilmente tolto il blocco dei licenziamenti. Un grande discorso perché ammantato di buon senso, ciò che manca, a tutti i livelli, nella politica di questi giorni, segnata da una crisi di governo incomprensibile per gli italiani, ma anche per alcuni dei suoi protagonisti. Adesso è inutile il gioco del cerino. Il capo dello Stato ha detto che è necessario andare oltre e in fretta a queste meschinerie.

Perché in gioco c’è il paese, ci siamo tutti noi. C’è un virus che è ben lontano dall’essere vinto. C’è una campagna vaccinale che va avanti in maniera balbettante ed è davvero inconcepibile che sia successo vista la corsa con cui si sono realizzati questi farmaci che rappresentano l’unica strada per uscire dalla pandemia. Ci sono i fondi europei del Recovery da portare a casa e non è certo che succeda in queste condizioni. C’è un’emergenza economica che è un iceberg di cui finora abbiamo intravisto solo la punta. Prima o poi ci arriverà addosso. Per quanto usurato è inevitabile il paragone con l’orchestra del Titanic, i balletti squallidi a cui abbiamo assistito da parte delle forze politiche. La compravendita dei parlamentari, le questioni e gli interessi personali che dominano su quelli generali. Le meschinità delle trattative da suk sulle poltrone e gli strapuntini, le ferme convinzioni ribaltate da promesse in una notte, i Ciampolilli. Che impudenza. Ancora una volta, com’è accaduto in passato, dalle macerie si erge il Colle. E Sergio Mattarella, come Charles De Gaulle all’epoca del ’68 è venuto ad annunciare che la ricreazione è finita.

Il presidente non vuole portare il paese alle elezioni. Certo, non può forzare la prassi costituzionale, ma, come alcuni suoi predecessori, sa che si può stiracchiare un po’. Il capo dello Stato chiede un governo. Vero, non un simulacro che vivacchi nell’ordinaria amministrazione in attesa delle urne. Quasi con sadismo, la suprema autorità nazionale ha elencato con minuzia i tempi necessari a costruire una nuova legislatura: la pausa tra lo scioglimento delle Camere e le elezioni. L’insediamento del nuovo Parlamento, la nomina dei nuovi vertici dei suoi due rami e le trattative per un accordo di governo. Si è scordato forse, di far cenno alla legge elettorale in vigore, che non consente di formare maggioranze prima di presentarsi al vaglio degli elettori.

Per la guida del governo venturo che Mattarella ha in mente c’è un nome solo: quello di Mario Draghi, che probabilmente, una volta ricevuta la telefonata che lo convoca per oggi a mezzogiorno al Quirinale, avrà avuto un mancamento. L’ex presidente della Bce avrebbe preferito, e c’è da capirlo, restare al di fuori dal pantano in cui mettere le mani per tentare di mettere insieme una maggioranza diversa da quella attuale. Di certo più larga, perché questo sarà il mandato che gli conferirà il presidente, e, si spera, a sostegno di un governo più autorevole dove quantomeno di possa raggiungere un compromesso accettabile tra competenza e appartenenza. Sarà durissima l’impresa, ma nessun altro poteva neppure tentarla in questo momento e con questi personaggi che ci hanno portato sull’orlo del baratro.

Vedremo se la lavata di testa del presidente della Repubblica sortirà una notte florida di consigli per i leader dei partiti. Un ceto politico che rischia di autoannientarsi dopo questa figura barbina che il capo dello Stato, l’autorità in cui gli italiani ripongono maggiore fiducia, ha dovuto e voluto mettere in risalto. Ora però al “si salvi chi può”, occorre anteporre la salvezza del Paese.œ

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