Sacripanti: «Sì, posso essere fiero. A Cantù qui mi sono sempre sentito protetto»

Intervista con il recordman di panchine alla Pallacanestro Cantù

Il recordman di panchine targate Pallacanestro Cantù è venuto a trovarci in redazione. Facendoci una bella sorpresa.

Un piacere, da parte nostra, aver ritrovato Pino Sacripanti in ottime condizioni di forma e disponibile a ripercorrere le sue nove stagioni da capo allenatore in Brianza che hanno voluto dire 384 partite allenate (319 in A, 56 nelle coppe europee, 9 in Coppa Italia, 1 in Supercoppa). Nessuno mai, più di lui.

Intanto, confessi, quanto è orgoglioso di essere il coach con il maggior numero di panchine alla guida di un club storico come Cantù. Con l’aggiunta, affatto banale, che lei stesso è canturino. Altro che nemo profeta in patria...

Un allenatore riceve critiche, si confronta con persone a cui non piace, sa di essere sempre messo in discussione, ma la verità per me è che quando ho guidato Cantù mi sono sempre sentito molto difeso e sorretto dalla gente. Come avvertissi una forma di protezione che mi permetteva di restare sereno.

E l’orgoglio?

Semmai risiede altrove.

In che senso?

Io, avviato come tecnico da maestri come Gianni Lambruschi, Fabrizio Frates ed Erasmo Nocco, ho poi voluto far continuare questa tradizione “interna” dando spazio a giovani allenatori del posto che in seguito si sono fatti strada. L’esempio più eclatante e oggi sotto gli occhi di tutti è Nicola Brienza, ma penso anche ad esempio a Flavio Fioretti e ad Antonio Visciglia. Per quella che può essere ritenuta un autentico filone della scuola canturina. E questo mi fa enormemente piacere, oltre a farmi sentire fiero.

Lei ha iniziato la sua avventura qui in serie A a fine 2000, quando le è stata consegnata una squadra già pressoché retrocessa.

Avevo questo grandissimo desiderio innanzitutto di salvare Cantù per riportarla poi nei piani alti. Nel primo periodo la mia vita personale era ridotta al lumicino perché ero preso tantissimo da quella professionale e forse ho dato pure più di quanto avevo per provare a far di tutto in un’età in cui non sei magari ancora pronto.

Obiettivo centrato, intanto.

Per me è stato incredibile vedere un Pianella che, da ancor più che mezzo vuoto, dopo quella cavalcata nel girone di ritorno che portò a salvarci era talmente pieno che non riuscivo neppure io a trovare biglietti per alcuni amici che venivano da fuori. Tutto questo mi ha emozionato e commosso perché ho ripensato al Pino canturino, che ha fatto il minibasket a Cantù, il settore giovanile a Cantù e quello dei tre titoli italiani giovanili a Cantù. Per me è stato il massimo, anche se l’autentico artefice è stato un altro.

Chi?

Lo dico senza piaggeria, pur con il mio aiuto e quello di Bruno Arrigoni, che il vero autore di tutto ciò sia stato indiscutibilmente Franco Corrado con la sua famiglia. Quello che ha fatto lui innanzitutto per scongiurare che il diritto sportivo finisse a Pesaro non ha davvero eguali. Non ci fosse stato Corrado non avremmo mai potuto parlare di una rinascita del basket canturino. La sua famiglia è stata brava a unire squadra, città e tifosi, a cementarne i rapporti e ad aprire la squadra stessa alla gente.

Un club che guardava già avanti rispetto ad altri.

Le decisioni avevano tempi molto snelli e noi avevamo in pratica mano libera. Quella è stata la grande forza di quel periodo. Siamo stati tra i primi, ad esempio, ad andare negli Stati Uniti durante l’estate per visionare i giocatori. A quei tempi non lo faceva quasi nessuno.

Alla lunga sua tranche dal 2000 al 2007 è poi seguito il biennio 2013-2015.

In questa mia seconda volta abbiamo avuto a mio avviso dei risultati che sono stati un po’ sottovalutati e che ritengo andrebbero rivalutati.

Perché, in fondo, si veniva dall’età dell’oro e ci si era abituati bene, ma poi la disponibilità non è più stata la stessa visto il ridimensionamento economico.

Può essere questa la spiegazione, in effetti, anche se Anna Cremascoli e il suo entourage hanno fatto sempre di tutto per confermare Cantù ai vertici. Vero però che grida ancora vendetta quello 0-3 con Roma nei quarti di finale playoff. Tre partite perse con scarti minimi (di 4, di 2 e ancora di 4 lunghezze, ndr). C’è però un altro aspetto che mi fa tanto piacere.

Sarebbe a dire?

Il lancio di Abass, che l’anno prima non metteva piede in campo neppure per un secondo, mentre nel girone di ritorno del mio secondo anno era stabilmente in quintetto base a scapito di uno straniero. Peraltro, i piani erano quelli di mandarlo in A2 a giocare, ma io ho preferito tenerlo con noi perché solo con i più forti avrebbe potuto migliorare e guadagnarsi spazio.

La partita da dimenticare di tutte le sue nove stagioni canturine?

Dimenticare no. Diciamo che tra quelle che non ho digerito c’è gara-5 di semifinale scudetto a Bologna con la Fortitudo con quel tiro da tre di Basile a tempo secondo me scaduto che ha indirizzato il finale del match e dunque la serie. Aggiungo la finale di Coppa Italia con Treviso che peraltro non ho più voluto neanche rivedere, con Thornton che si infortuna alla caviglia dopo che noi abbiamo tatticamente dominato la Benetton per almeno 25’. Eravamo riusciti a imbrigliarli benissimo e quella partita meritavamo di vincerla.

E quella che più le è rimasta nel cuore?

Una partita giocata subito dopo Natale del 2002 contro Treviso nella quale, al cospetto di un’avversaria formidabile, al di là della vittoria la soddisfazione personale è stata soprattutto sotto l’aspetto tattico. Poi, ovviamente, la Supercoppa per la gioia che ha dato a tutti i tifosi e perché ha consegnato qualcosa di tangibile al club.

Ritiene di aver più dato o ricevuto da Cantù?

Se penso anche a quello che io sono al di fuori del basket, ho sicuramente ricevuto molto di più e continuo a riceverlo visto che la gente prosegue a fermarmi per strada con grande affetto. Io a Cantù ho questo record di panchine, ma ho soprattutto una scuola educativa iniziata con la famiglia Allievi che per me è stata una reale scuola di vita.

Nel basket di oggi è ipotizzabile che un altro canturino quale Brienza possa ripercorrere la sua stessa strada con Cantù?

Nella mia testa l’obiettivo era diventare il Marzorati delle panchine, vale a dire non andar via mai da Cantù. Fosse stato per me, in effetti, non me ne sarei mai andato. Nicola l’ha invece già sperimentato, ha fatto esperienze altrove, è ritornato. Sarà lui a capire se vorrà fare o meno una cosa del genere.

Quale ritiene possa essere l’eredità che ha lasciato. Anche solo un segno del suo passaggio.

Spero di aver lasciato la curiosità di cercare sempre situazioni nuove e soprattutto la capacità di costruire la tua identità di squadra a seconda dei giocatori che hai a disposizione. Non ho mai avuto la fortuna di ingaggiare Tizio, Caio e Sempronio che sarebbero stati gli ideali per il mio gioco, ma preso i più forti che potevo con le risorse a disposizione per poi investirli di un gioco. Sperò altresì di aver lasciato un buon lavoro circa la gestione dei gruppi. Nei quali si creava non solo un’identità tecnica, ma anche un’identità umana nell’arco dei mesi.

Lei è ancora un allenatore relativamente giovane e allo stato, come detto, vanta 384 panchine a Cantù. Ebbene, ritiene che aggiornare questo dato e sfondare quota 400 possa essere ancora possibile?

Mi fate sorridere...

Permetta, non è un’ambizione lecita e comprensibile pensare di poter tornare ancora una volta?

Questo non lo so. Dico solo che per me Cantù resta la pallacanestro, la mia vita, tutto.

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