Fabregas: «Io qui a lungo. Obiettivo salvezza però attaccando»

L’intervista L’allenatore del Como a La Provincia: «Ho lavorato più sulla testa che sulla tattica. Ho ancora molto da fare»

Giornata di interviste, al Sinigaglia per Cesc Fabregas. Passa da un microfono all’altro, noi, la Rai, la tv del Qatar Bein. Una maniera per gettarsi di nuovo nel lavoro, dopo qualche giornata di vacanza (ma non a Miami come era previsto). La sua testa è già rivolta al futuro, alla serie A che lo aspetta: forse è per questo che si è tagliato la barba, e gironzola nelle stanze del Sinigaglia in tuta, come un giovincello. Appuntamento nella Club House dello stadio, divanoni e relax. Per raccontare il Como che è stato, e un po’ di Como che verrà.

Buongiorno Fabregas. Contento?

Certo che sì. Anche se stiamo già guardando al futuro.

I suoi giocatori saranno ancora più felici di lei, in vacanza a Ibiza, offerta da lei...

Se lo meritavano. Gran parte del merito è loro.

Possiamo parlare con lei da allenatore?

È stato un lavoro d’equipe dove ognuno ha fatto la sua parte.

Come andiamo con il patentino?

Arriverà, credo in luglio.

Dunque l’allenatore del Como sarà Fabregas. Ma come dobbiamo considerare questa sua avventura a Como? Di passaggio? In attesa di allenare qualche squadrone?

Chi l’ha detto? In questo momento penso solo al Como. Sono venuto qui perché c’è un progetto in cui posso esprimere il mio concetto di calcio, senza particolari pressioni. E’ un bel progetto, in cui credo molto. Perché dovrei guardare altrove? Mi vedo qui per più stagioni. E’ una avventura molto intrigante.

Si dice che lei voglia vincere la Champions, laddove non ci è riuscito da giocatore...

Già, la Champions, l’unico trofeo che non ho vinto in campo... (lo dice con un’aria luciferina, di sfida. Ma poi si apre in un sorriso rilassato, ndr): ma qualsiasi giocatore o allenatore sogna la Champions, che c’entra? Non è una rivincita. Comunque, ripeto, io penso solo al Como.

Che è andato in serie A.

Abbiamo fatto bene. Addirittura penso che la serie A sia arrivata in anticipo rispetto ai programmi. C’era qualcosa ancora da limare, da sistemare. Lo stadio. Oppure penso ai campi di allenamento, dove abbiamo lavorato per un periodo sul sintetico, sotto l’acqua, che non è il massimo per le gambe. Ora stiamo mettendo erba dappertutto. Però volevamo vincere, e ce l’abbiamo fatta.

Che Como sarà?

Credo che sia intelligente ed equilibrato dire che il nostro traguardo sarà la salvezza. Per la prossima stagione c’è un budget che non consente di volare più alto. Dobbiamo capire la realtà dove giocheremo. Tutto nuovo, alta qualità. Pensare ad altro, oltre la salvezza mi sembra sbagliato. Lo dico perché sento ormai tanti che fanno riferimenti alla società più ricca, ad acquisti milionari come noccioline... Non è questa la situazione. Piccoli passi. Sarà durissima e dobbiamo prepararci.

E’ vero che ha chiesto dieci giocatori?

Il mercato ha un suo percorso e dire adesso quanti giocatori possono arrivare, è impossibile. Lavoreremo per una squadra adeguata.

Come intende affrontare la serie A?

Con la mentalità che ci ha fatto vincere in serie B. Magari possono cambiare i moduli, il sistema di giocare, ma non deve cambiare la mentalità, che è quella di giocare per vincere, per attaccare. A volte mi chiedono del possesso palla, ma io rispondo che del possesso palla, per farlo o per vedere la percentuale a nostro favore, non mi interessa nulla. Il possesso mi interessa se riesco a far male, a fare gol.

Abbiamo visto due Como, uno con possesso palla e uno più verticale, quasi contropiedista. Quel è il suo Como?

Il mio Como è quello che gioca per vincere. Poi possono succedere tante cose. Per esempio, prendete la partita con la Feralpi Salò. Tu la prepari in una certa maniera, ma poi in campo vedi che succedono altre cose. Che ti aggrediscono uno contro uno, che non ti lasciano spazio, e allora cambi strada, cerchi di creare spazio in altro modo lasciando gli attaccanti a giocarsela uno contro uno con i loro difensori. Devi adattarti alla partita, capire come puoi arrivare alla vittoria. Per questo puoi vedere due Como diversi.

Quando è cambiata la stagione del Como?

Ci sono state tante tappe.

La prima.

Quando ho fatto il primo discorso nello spogliatoio, appena diventato allenatore della prima squadra. Ho detto: “dobbiamo giocare per andare in serie A”. Davanti avevo un gruppo che si era accontentato del sesto posto. Che diceva “Siamo in corsa per i playoff, che bello”. E io dicevo: ma che obiettivo è correre per i playoff? Essere dentro una lotteria? Devi avere ambizione.

In quanto l’hanno seguita?

Non so, certo ho visto piano piano che i ragazzi hanno cominciato a crederci. Un grande gruppo. Prima c’era un po’ la mentalità a non perdere. Ma quando giochi per non perdere, vinci poco e qualcuna la perdi. Se giochi per vincere, ne perdi poche e qualcuna la vinci...

Seconda tappa.

Il mercato di gennaio. Che ci ha permesso di avere una squadra che era più simile a quella che volevo io, per caratteristiche. Prima finivamo spesso per difendere a cinque. Non andava bene. Con Gabriel (Strefezza, ndr) è cambiata la musica perché si potevano aprire spazi in avanti. Abbiamo potuto fare un 4-2-3-1 o un 4-4-2 efficace.

Terza svolta.

Ternana-Como. Venivamo dal ko con l’Ascoli, ma lì per la prima volta ho visto il Como che volevo io. Che poi ho rivisto a Palermo, a Genova e in altre occasioni.

Che è successo a Modena o nel primo tempo della partita con il Cosenza?

È successo che quando vedi il traguardo a un passo, a qualcuno comincia a venire paura. Normale. C’è chi ha fiducia e si fa vedere, e chi magari si nasconde. Ma io ho lavorato per dare tranquillità alla squadra e alla fine i valori si sono visti anche nelle ultime partite, come il secondo tempo con il Cosenza.

Qual è il segreto tattico di Fabregas?

Non ho segreti tattici. Sto studiando anche io. Mi innamoro di tecnici che inventano qualcosa, di uno come Pochettino, o di Wenger ma anche di Vivarini del Catanzaro con il quale mi piacerebbe fare una bella chiacchierata. Penso che il lavoro più importante l’abbia fatto sulla testa dei giocatori. Sulla mentalità.

Infatti si dice che lei qui sia più di un allenatore, che riesca ad alzare l’asticella di tutti, non solo di chi gioca.

Sì sì, anche dell’addetto stampa(e indica Camagni, sorridendo). Faccio un fondo così a tutti. Ho giocato in posti con il Barcellona, l’Arsenal, il Chelsea dove se non performi sei fuori. La mentalità è questa: farsi trovare pronti.

In una cena al Panathlon lei mise Gabrielloni nella top undici della sua vita...

Qualcuno aveva sorriso, ma Gabrielloni è stato uno fondamentale in questa promozione. Ho dimostrato che non mi interessa il curriculum, ma quello che dai in campo. Tutti possono andare là fuori ed essere decisivi. Basta volerlo. Bellemo, Iovine, Gabrielloni, Solini qui sono una famiglia. C’è bisogno di una famiglia, ma non bisogna accontentarsi si essere una famiglia. Bisogna pensare che si deve essere una famiglia competitiva. E loro ce l’hanno fatta.

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