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Giovedì 18 Settembre 2025
Todesco: «Il mio calcio come un film»
Intervista «I mie cinque anni di A al Como, le pistole alla Lazio, le scaramanzie a Pisa e Rambone che mi diceva che ero troppo bello»
Como
Enrico Todesco, l’angelo biondo.
Uff, non ricominciamo con questa storia.
Ok, però lei è stato uno dei giocatori più belli del Como. Tipo Cabrini.
Non è che se fossi stato brutto avrei fatto di più sul campo eh...
A Como perché?
Sono di Milano, quartiere Niguarda. Giocavo nel Cusano Milanino, il paese del Trap. Mi vide un osservatore del Como. E mi prese per il Como-Milano, cioè la squadra del Como che faceva giocare i giovani della provincia milanese. Ci allenavamo a due passi da casa mia, il quartiere dove Pozzetto girò il Ragazzo di Campagna. Taaacc...
Poi?
Poi, al momento della selezione, a 14 anni, venni confermato e passai a Orsenigo. Giovanili sino alla prima squadra. Debutto in B, allenatore Rambone. Primo gol alla Cremonese. Retrocessi in C. Roba da matti.
Perché?
Era una squadra forte: Vecchi, Volpati, Bonaldi.
Rambone, quello della pistola sul tavolo quando parlava con il direttore sportivo.
Lui era di Pagani, aveva una fama un po’ così, ma io la pistola non l’ho mai vista. Piuttosto era uno molto educato, dava del lei ai giocatori, poi se si incazzava urlava di brutto. Ma ho visto urlare di più Marchioro: una volta ha buttato giù una porta all’intervallo perché non giocavamo bene!
Torniamo a Rambone.
Aveva la fissazione dei walkie talkie. In ritiro si metteva lì a cercare interlocutori nell’etere. Aveva il nomignolo di “Barbanera”, mi pare. Una sera intercetta uno: che bello, un appassionato di calcio. Cominciano a parlare di questo e di quello, poi si scopre che era... Trevisaello, uno dei nostri compagni con la stessa passione. Una volta trovò Bonaldi che giocava poker in un bar a Como, di notte. «Lei è fuori rosa», urlò. «Anche fuori giglio?», ribattè lui...
C’era un giovane Nicoletti.
Un fenomeno. Ci sentiamo ancora adesso. Il più matto di tutti.
Ricordi?
Arrivava sempre in ritardo e Marchioro faceva finta di nulla. Poi, però, un giorno il mister non ce la fa più, chiama a raccolta la squadra, prende Nico e gli dice: ma perché cavolo sei arrivato in ritardo anche oggi? E lui: stavo baciando la mia ragazza. E si mette a fare il mimo della scena. Marchioro non ce la fa, e scoppia a ridere. Impossibile restare seri. Si presentava con quel completo rosa, e lo chiamavamo “la pantera rosa”. Voi insistete con la questione del bello, ma il vero acchiappadonne era Nicoletti. Educato da una famiglia molto religiosa, la prima esperienza in ritiro fu in camera con il portiere Pintauro, uno che non era esattamente un chierichetto. Lo choc è stato forte, e da lì è decollato... (ride, ndr)
Ci hai trascorso parecchio tempo.
Anche in Canada...
Dove?
A fine carriera mi arriva la proposta di andare a giocare un annoi nei New York Rockets. Ci vado con Briaschi e... Nicoletti. Abitavamo in un grattacielo, ci allenavamo alla sei del pomeriggio. Due liceali. Sempre in giro a far casino. Lui conquistava le ragazze con la simpatia. La solita gag: arrivavamo in un ristorante e lui cominciava a chiedere perché in Canada non ci fosse il bidet. Giù risate.
Torniamo al Como. Un anno solo. Poi comproprietà alla Lazio. Anche lì una sola stagione, 1979-80.
Sono arrivato che avevo 19 anni e sono andato via che ne avevo 35. Il militare, la morte di Paparelli, il calcio scommesse, una squadra di personaggi molto particolari.
Debutto e gol.
Annullato. A Catanzaro. Poteva essere la svolta della carriera. La moviola mostrò che era tutto regolare. Ma non c’era il Var.
La morte di Paparelli, il tifoso della Lazio colpito da un razzo lanciato dalla curva della Roma nel derby.
Ce lo dissero un’ora prima della partita. «Ragazzi, dovete giocare se no qui scoppia la guerra». Io ero in panchina, tutti con grande disagio e la voglia di scappare via. Finì 0-0, per forza: chi avrebbe avuto il coraggio di segnare un gol in quella partita?
Il calcio scommesse.
Pescara-Lazio: finisce la partita, entriamo negli spogliatoi e troviamo Polizia e Carabinieri nello stanzone. Si disposero in fila indiana e misero gli indagati da una parte e gli ”innocenti” dall’altra. Surreale. Wilson, Cacciatori, Manfredonia, Giordano seduti e guardati a vista.
Le scommesse.
Arrivo a Roma e vado a mangiare a Tor di Quinto. Mi siedo, prendo il menu, lo sfoglio: antipasti, primi, secondi, dessert e... quote delle partite. Trinca e Cruciani, gli artefici del movimento, viaggiavano sul pullman della Lazio, con noi, fai un po’ te... Erano amici dei giocatori. Tutto scoppiò a Milan-Lazio ma io non mi accorsi di nulla. Montesi, estroso giocatore della Lazio, estremista di sinistra, sempre fuori dal sistema, appena subodorò, riferì tutto al suo amico giornalista Oliviero Beha. E scoppiò il caso.
Era la Lazio del dopo scudetto, quello delle pistole, del tiro ai barattoli, delle scazzottate in allenamento.
Quando arrivai io, era tutto un po’ più tranquillo. Ma al poligono ci andavano veramente, i miei compagni. Una volta Martini, terzino e pilota di aerei, venne a fare delle evoluzioni sopra il poligono e loro... gli spararono. Una banda di pazzi. Si calmarono solo dopo la tragedia Re Cecconi, il compagno ammazzato da un gioielliere dopo aver fatto finta di fare una rapina.
Che ambientino.
Ho visto mangiare uno zuccotto prima di una partita. Altro che dieta. Il preparatore atletico faceva fare due giri di campo, poi saltavano fuori Wilson e Garlaschelli e gli dicevano: va’ che non dobbiamo andare alle Olimpiadi. E si mettevano a giocare.
Dopo la Lazio, Genoa e Pisa.
Due promozioni in A e una salvezza. Ricordi indelebili. Ultima giornata Atalanta-Genoa, vinciamo, ma dobbiamo aspettare il risultato della Lazio. La sua partita finisce 10’ dopo, ha un rigore, lo sbaglia. C’erano ventimila genoani, tremò la terra. A Pisa la festa con Gozzoli capitano, in Piazza dei Miracoli. E anche lì, che storie.
Racconta.
Il presidente Anconetani era superstizioso, e aveva attaccato questa roba a tutti. Compagni che giocavano con i santini nei parastinchi, pranzi nel ristorante gestito da una maga strabica che faceva il malocchio. Una sera torniamo da una cena, io e Gozzoli, e lui pianta una frenata nel deserto. «Cosa fai?». «È passato un gatto nero: finché non passa un altro, io non passo». Mezzora a bordo strada fermi come due imbecilli. Anconetani ci faceva controllare. Mandava emissari sotto casa, e segnavano con il gessetto l’asfalto vicino alle ruote delle nostre auto. Così se uno muoveva macchina, restava il segno sulle gomme. Eravamo tutti segregati in casa.
Adesso è il momento di parlare del Como, però.
Torno qui nel 1983. Dopo due promozioni in A, voglio la terza. E la centro subito, segnando gol importanti come nella sfida con la Cremonese (io e Vialli i marcatori) o con la Cavese che ci dà la certezza della A.
Festa?
Ci mettiamo d’accordo io, Centi, Mattei e altri di andare una settimana a festeggiare a Parigi. Arriviamo all’aeroporto e Mattei ha la carta di identità scaduta. Resta a terra. Ma non demorde. Prende la sua Volvo, fa 800 km, e ci raggiunge in albergo. Ma fonde il motore...
Poi cinque anni di A.
Tutti belli. Sono stato fortunato, non ho avuto grandi infortuni, solo un anno mi misero fuori rosa facendomi allenare con la Primavera, ma durò poco. Il bello è che non mi ricordo perché. Ora racconto quella degli specchi.
Prego.
A Empoli Albiero prese una gomitata in faccia che gli bucò la pelle allo zigomo. Ci passava un dito. Il massaggiatore Mauri si precipitò negli spogliatoi a far sparire gli specchi per evitare che lui vedesse come era conciato. Puntura e via, giocò la ripresa.
Il punto più alto?
Beh, facile. Como-Napoli 1-1, marcatori Todesco e Maradona. Basta quella partita lì. Però ricordo un Como-Avellino, in cui segnai ma feci anche il fallo da rigore. E poi la partita con la neve, a San Siro, quella che vincemmo con le scarpette da calcetto che ci procurò Muller. Ma fu l’unica partita che non giocai quell’anno.
Allenatori?
Ho l’impressione che vivemmo un po’ di rendita su tutto il lavoro che facemmo con Bianchi il primo anno. Bene Burgnich, Marchesi, Mondonico, certo. Ma quel primo anno fu fondamentale, ci diede le basi.
Personaggi?
Muller aveva i tappetini persiani in macchina e il beauty come quelli di adesso perché era uomo Boss. Dirceu se lo sostituivano all’88’ urlava, io non posso uscire, in Brasile poi ci restano male e io devo fare il quarto mondiale. Didoné e Notaristefano fortissimi ma sfortunati per gli infortuni... Matteoli, Centi e Nicoletti dei fratelli, li sento ancora.
Sabato ci sarà l’appuntamento con la tua associazione “Cartellino rosso alla sla” in Piazza Perretta.
Prima Borgonovo, poi il nostro amico Bicio Del Sante. Esperienze molto dolorose che ci hanno spinto a fare qualcosa. Raccogliamo fondi con cene ed eventi. Sabato ci sarà il tendone con la cucina degli alpini e sfide 3x3 per ragazzini. Invitiamo tutti a partecipare.
Perché a fine carriera sei rimasto a Como?
Mi piace. Mi trovo bene, qui sono nati i miei figli, di cui uno è in curva, sfegatato.
Se un tifoso del Como?
Certo. Ogni tanto vado allo stadio ma più frequentemente lo vedo alla tv.
Ti piace?
Grande progetto, credo che ci divertiremo per qualche anno, finchè la proprietà attuale rimarrà qui.
Como-Genoa?
Tatticamente il Genoa ha vinto la partita. Ma credo sia anche perché dopo un anno si comincia a capire la filosofia di Fabregas, che è un numero uno. E dunque sarà sempre più difficile perché siamo in A e le contromosse arrivano. Non capisco perché sia andato via Gabrielloni e poi darei qualche chance a Goldaniga.
Allora, ’ste ammiratrici? Hai anche tu i sacchi pieni di cartoline di tifose?
Guarda, ero biondo e più visibile degli altri. Un danno, meglio se sei invisibile. Tutti si ricordano e notano quello che fai. E quanto alle ragazze, poi arrivavano vecchi lupi di mare, e sul più bello zac. Anche se Rambone mi disse: tu sei troppo bello per giocare a calcio. L’ho smentito.
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