«A scuola non s’insegna la mafia.Neppure a giurisprudenza»

Criminalità La denuncia di Nando Dalla Chiesa durante l’incontro in Comune. «I magistrati stessi di laureano senza mai aver fatto corsi sulla ’ndrangheta»

Como

Un atto di denuncia quasi urlato, quello echeggiato nel cortile di Palazzo Cernezzi nel corso dell’incontro dedicato alla “invisibile lotta civile” contro la ’ndrangheta: nelle scuole italiane, anche nei corsi di giurisprudenza, «non si studia la mafia. Non ci si prepara su cosa sia la mafia». A lanciare il sasso nello stagno della lotta alla criminalità organizzata, è stato il professor Nando Dalla Chiesa, che alla Statale di Milano ha un corso di sociologia della Criminalità organizzata. Corso che non fa parte di giurisprudenza.

L’atto d’accusa

Le parole di Dalla Chiesa sono state sferzanti, anche per il tono con le quali le ha pronunciate. Per non dire dei contenuti, perché il docente ha voluto porre l’accento su un fatto «clamoroso» a suo giudizio: «In Italia si può diventare magistrati senza aver mai fatto un singolo corso per comprendere cosa sia e come operi la criminalità organizzata».

«Mi stupisce la nostra inconsistenza nel difenderci dalle mafie. Non conosciamo l’avversario e non lo studiamo - ha detto - ma loro ci studiano. E studiandoci cambiano le loro strategie». Dalla Chiesa ha sottolineato come «il livello dei nostri investigatori che si occupano di criminalità organizzata è il più alto al mondo», tant’è vero che Fbi, Scotland Yard (tra gli altri) è all’Italia che chiedono supporto nelle indagini contro le mafie. «Ma nonostante questo non abbiamo studiamo il fenomeno». Dalle scuole superiori fino alle università «agli studenti non viene offerto nulla». E così accade che quei magistrati che hanno approfondito il tema, che si sono specializzati come i pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia, finiscano per fare indagini «che poi vengono giudicate da giudici che non sanno nulla della criminalità organizzata, della sua storia, delle sue dinamiche, dei legami famigliari».

I beni confiscati

Non è stata la sola denuncia pronunciata dal palco dei relatori. Anche la procuratrice generale della Direzione distrettuale antimafia di Milano, Alessandra Dolci, ha voluto sollevare il velo su un aspetto critico nella lotta alle mafia. Ovvero l’assenza dei Comuni di fronte alla gestione dei beni confiscati alla criminalità. «Ma su quei beni - ha detto la dottoressa Dolci - è importante che lo Stato metta la propria bandiera. E li riconverta per utilità sociale, perché sono il segno della vittoria della società civile sulle mafie». E invece «moltissimi comuni non vogliono gestirli, perché li considerano un peso».

E allora ben vengano i volontari, come quelli della parrocchia di Rebbio e del Decanato di Appiano Gentile che hanno preso in gestione il maneggio di Oltrona San Mamette del boss Bartolomeo Iaconis: «Meritano un applauso. Senza di loro le mafie vincerebbero» ha detto Alessandra Dolci.

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