«Affiliato alla mafia», ma gli lasciano i soldi

Lo scontro La Procura chiede il sequestro dei beni di un imputato condannato per ’ndrangheta e bancarotta. I giudici negano il provvedimento: bisogna attendere la sentenza definitiva. Anche la Cassazione conferma

«Sono di Gioia Tauro e la mafia mi fa schifo. La mia colpa? Quella di prestare soldi alla famiglia Ficarra, processatemi per quello, ma non dite che sono mafioso perché non è vero». Queste parole, pronunciate in aula dal Antonio Carlino, cinquantenne traslocato nella nostra provincia e finito sotto accusa come appartenente alle locali comasche della ’ndrangheta, non è servito a evitagli una condanna a ben 16 anni di carcere per associazione di stampo mafioso, tre ipotesi di bancarotta fraudolenta e di trasferimento fraudolento di valori con l’aggravante di aver commesso il fatto per agevolare la ’ndrangheta. Ma, almeno, Carlino ha scampato - per ora - il rischio di vedersi portar via qualcosa come oltre 4 milioni di euro, perché il Tribunale prima e la Cassazione poi hanno respinto la richiesta di sequestro preventivo avanzata dalla Procura antimafia.

Accusa e condanna

La questione è giuridica, ma parlando di criminalità organizzata assume inevitabilmente una valenza anche sostanziale. Nello specifico. Carlino è stato riconosciuto colpevole, in primo grado, da un lato di essere affiliato ai clan della malavita calabrese, dall’altro di aver contribuito a far fallire tre differenti società cooperative con danni per milioni di euro allo Stato per tasse non pagate. Inoltre avrebbe anche aiutato la famiglia Ficarra, riconosciuta come famiglia di spicco della ’ndrangheta, a trasferire beni che - altrimenti - sarebbero rimasti impigliati nelle maglie delle forze di polizia.

La Procura distrettuale antimafia di Milano, calcolando la sproporzione tra il valore dei redditi effettivamente dichiarati da Antonio Carlino e quelli nella sua disponibilità, ha chiesto all’atto della sentenza di procedere anche al sequestro preventivo dei beni. Quindi, di fronte al diniego dei giudici, ha fatto ricorso al riesame, senza alcun successo. Lo stesso vale per l’appello in Cassazione, i cui giudici hanno dichiarato il ricorso inammissibile per questioni procedurali.

Il motivo per il quale secondo i giudici i 4 milioni di euro attribuibili a un imputato condannato - ancorché in primo grado - per mafia non possono essere sequestrati, è per «carenza del requisito del periculum in mora». Tradotto: per poter procedere a un sequestro preventivo, bisognava dimostrare che ci fosse l’urgenza di provvedere in tal senso perché in presenza di un “pericolo nel ritardo”, cioè che sussistesse un rischio concreto che, non intervenendo subito prima di una sentenza definitiva, l’eventuale confisca finale diventasse sostanzialmente inutile per intervenuto sparizione del gruzzolo.

Così i giudici

La Procura ha cercato di spiegare che quel rischio è concreto e che a dirlo è lo stesso Domenico Ficarra, ovvero il dominus dell’intero meccanismo di società create e fatte fallire per arricchire la ’ndrangheta, ma non è servito a nulla. Perché il Tribunale ha ritenuto che il nuovo fatto non poteva costituire «unico fondamento per la opposizione del vincolo reale l’avvenuta condanna di Carlino per i titoli di reato contestati». Insomma, per aggredire quei 4 milioni c’è bisogno di attendere la sentenza definitiva.

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