
(Foto di archivio)
La sentenza L’associazione vince la battaglia legale: «Palazzo Cernezzi smetta la sua attività di molestia». Illegittimo il provvedimento di sgombero. Bacchettato Rapinese e «la volontà di procedere nella lite»
Como
«Fosse l’ultima cosa che faccio da sindaco, li sbatterò fuori di lì». La saetta scagliata lo scorso aprile dal sindaco Rapinese contro l’odiata Associazione Carducci, si infrange su un parafulmini chiamato legge. E contro la promessa ben poco conciliante «non resteranno le briciole», a difesa dell’ente con sede in viale Cavallotti si erge la sentenza del giudice di Como, Agostino Abate. Che ieri ha imposto nero su bianco al Comune di «cessare qualsivoglia attività che cagioni molestia o turbativa all’attività dell’Associazione e in particolare di non procedere» ad alcuno «sfratto o sgombero».
È una sconfitta su tutta la linea, per il primo cittadino, che da oltre un anno si è imbarcato in una guerra per cacciare il Carducci dall’immobile di viale Cavallotti. Un immobile sul quale però, scrive il giudice, «il Comune non ha la piena disponibilità». Al contrario, è proprio Palazzo Cernezzi ad essere «obbligato a mettere a disposizione tutte le aule necessarie» al Carducci, aule «che sono diverse dai locali in uso all’Associazione».
La querelle nasce nel febbraio dello scorso anno, quando il Comune inviò un ordine tassativo, con toni per nulla concilianti, per obbligare il Carducci a restituire le chiavi delle sale del Museo Casartelli, al primo piano dell’edificio al civico 7 di viale Cavallotti: «Stante l’assenza di un titolo che legittimi la disponibilità da parte di Codesta Associazione del predetto Museo». Da lì iniziò un braccio di ferro che ha portato, come detto, il sindaco Rapinese a minacciare addirittura di radere al suolo l’Associazione e financo di annullare l’Abbondino d’Oro concesso in passato.
Toni, quelli dell’Alessandro furioso, che non sono piaciuti neppure al giudice, il quale scrive (nel giudizio che ha accolto le posizioni degli avvocati Maria Cristina Forgione, presidente del Carducci, ed Alessandro Casartelli): «Nonostante la natura delle parti, entrambe caratterizzate da finalità sociali e legate dalle proprie origini al dovere di perseguire meritevoli interessi collettivi, non è emersa una condivisa volontà di conciliare bensì di procedere comunque nella lite, almeno per una parte». Che quest’ultimo sia un riferimento diretto all’amministrazione Rapinese è chiaro, quando il giudice verso la fine della sua sentenza ricorda come, a fronte della richiesta di non procedere ad alcuno sfratto prima della decisione, la risposta del Comune fosse stata di «non poter garantire che nelle more del tempo concesso per controdedurre non venga attuato lo sgombero». Con chiusa del magistrato: «Molto si potrebbe osservare in ordine a tale posizione, specie perché proveniente da un Ente pubblico».
Oltre a ribadire che «il Comune non aveva e non ha alcun diritto di sgomberar l’immobile, neanche in parte», la sentenza «ordina» alla giunta Rapinese di non sfrattare nessuno, ma anzi di adoperarsi per redigere un regolamento condiviso.
Anche perché se si vuol cercare un responsabile all’attuale situazione, quello è proprio il Comune (bollato come «inadempiente dalla sentenza) che «con l’atto di donazione» si è «vincolato all’uso deciso da terzi, ossia dal donante, rinunciando a disporne liberamente» e che ad oggi non si è premurato di concordare un regolamento.
E infine il giudice avverte: «Per il futuro si impone un regolamento» ma questo «non potrà che esser concordato e ciò esclude in modo assoluto qualsiasi atto di imperio della pubblica amministrazione».
«Dopo i diffusi attacchi che abbiamo subito - è il commento della presidente Forgione - il giudice ci ha dato ragione su tutta la linea. Il Comune non può utilizzare gli spazi senza accordarsi con l’Associazione, una circostanza sempre sostenuta e che l’amministrazione invece non ha rispettato».
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