Coronavirus: «Non ho mai visto
la morte così da vicino»

Valter Mascetti ha tenuto un diario dell’incubo vissuto in questi mesi per colpa del Covid. «In ospedale ho provato la sofferenza, quella che sale dallo stomaco e infine sfocia in un pianto liberatorio»

«Mai ho sperimentato la morte così da vicino, così intensamente e così a lungo, provando emozioni e sentimenti estremamente intensi, pervasivi e contraddittori». Valter Mascetti ha 65 anni. E gli ultimi due mesi di vita li ha trascorsi nel reparto Covid del Valduce prima (33 giorni) e in convalescente in quarantena a casa poi. Psicoterapeuta comasco, Mascetti ha tenuto un diario di questo periodo da incubo anche se, scrive, «nel passato, ho toccato da vicino anche la mia stessa morte. 14 anni fa fui salvato in extremis da uno shock anafilattico. Allora il ritorno in vita è stato repentino e tale esperienza si è sfocata nei miei ricordi. Quello che ho vissuto in queste ultime settimane lascerà invece ricordi indelebili».

Il contagio

«Prima di essere ricoverato sono rimasto a letto per una settimana con i sintomi in continuo aggravamento. Per ben quattro volte i miei familiari hanno chiamato il 118. Arrivavano gli operatori, mi misuravano i parametri di base e, dopo essersi messi in contatto con la centrale, mi sconsigliavano vivamente di ricorrere al pronto soccorso, descrivendomelo come un inferno. Avevano ragione. Quando, però, i parametri vitali sono diminuiti drasticamente i miei cari hanno insistito per farmi ricoverare e, fortunatamente, gli ho dato ragione».

Valter Mascetti viene così portato al Valduce: «Domenica 27 marzo e i due giorni seguenti sono stati i giorni più angoscianti della mia vita. Prima di essere accolto in pronto soccorso ho passato diverse ore in autoambulanza, in fila con altre, in attesa di poter scaricare gli sfortunati passeggeri. Poi, per due interminabili giorni, sono stato collocato su una scomodissima barella in un angolo dove assistevo impotente a ciò che accadeva intorno a me. Arrivavano continuamente persone in condizioni critiche: c’era chi gridava e chi si lamentava».

Il ricovero

«Pensavo continuamente alle statistiche sui morti e sui dimessi e mi ripetevo che io avrei fatto parte del secondo gruppo. Pensavo a mia moglie e ai miei figli e nel terrore di non più vederli mi obbligavo a ricordare i momenti più belli della nostra vita - scrive Mascetti - Alla fine del secondo giorno d’inferno sono stato finalmente trasferito in reparto. Lì ho provato la sofferenza, quella che senti dentro, che sale dallo stomaco fino a prenderti alla gola con un singhiozzo angosciante e che infine sfocia in un pianto liberatorio. È stata una sofferenza liberatoria, che mi ha fatto sentire vivo e in pace con me stesso».

Dolore nell’animo. Ma anche dolore nel corpo. «I primi dieci giorni in reparto sono stati difficili. Sul viso, avevo una maschera che mi opprimeva fisicamente ma che, al tempo stesso, mi teneva in vita. Provavo dolore in tutto il corpo, dolore ai polmoni, brividi di febbre, stanchezza. Avevo paura di non farcela ma sentivo la voglia di sconfiggere l’ospite indesiderato che avevo dentro. In questo periodo di sofferenza ho scoperto di aver vicino, oltre ai familiari, gli amici di oggi e quelli di un tempo». E poi c’era il personale del Valduce: «Persone meravigliose che mi curavano rischiando la propria vita. Pian piano le conoscevo anche senza mai poterle guardare in viso, perché avvolti da indumenti e protezioni insopportabili, come astronauti. Poi, finalmente, un giorno, mi sono alzato e ho sentito la voglia di fare colazione. È stato il momento in cui è cominciata la strada verso la guarigione».

«Nella vita di psicologo - conclude Valter Mascetti - ho avuto spesso a che fare con la sofferenza umana, anche la più atroce. Ho imparato bene che le ferite della mente permangono anche quando quelle del corpo si sono rimarginate, e che anch’esse hanno bisogno di essere lenite. Ne hanno bisogno non solo coloro che hanno vissuto la mia stessa esperienza, ma anche i moltissimi operatori sanitari che sono “al fronte” e gli innumerevoli segregati in casa. Molti riusciranno a elaborare la drammatica esperienza dell’isolamento e della perdita con l’aiuto dei familiari, degli amici e dei colleghi. Altri, avranno bisogno di un aiuto. A loro - conclude Mascetti - vorrei dire di non avere nessuna vergogna nel sentirsi deboli e vulnerabili, e che chiedere aiuto è un’enorme e salutare prova di coraggio».n 
P. Mor.

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