Dentro il reparto
con i malati Covid
«Dolore e coraggio»

Reportage dal Valduce con chi si occupa dei contagiati.Tra il personale poesie e sorrisi per sconfiggere la paura

La sottile linea rossa che separa dal nemico invisibile è tracciata lungo tutto il corridoio, al primo piano del Valduce. In quello che, da un mese e mezzo, è diventato (e forse lo resterà per sempre) il reparto Covid b, le stanze con all’interno i pazienti contagiati sono contrassegnate con un post it. E quelle senza? «Lì abbiamo i casi dubbi» spiega Valerio Rossini, il primario di pneumologia, la voce attutita da mascherina ffp2, mascherina chirurgica e visiera modello giocatore da hockey.

Lui - con altri medici e infermieri protetti da casco a piedi - si muove oltre la linea nemica. In quella che viene considerata la “zona sporca”. Se ti cade anche solo il tappo di una biro al di là della linea, dev’essere gettato via assieme agli oggetti contaminati. Nessuna eccezione. «Bisogna essere rigidi» sottolinea il primario. Che il nemico è subdolo e non risparmia nessuno.

Il rapporto con i pazienti

Il dottor Rossini non ha cartelle cliniche in mano. Entra nelle stanze, chiude la porta, vi resta il tempo per visitare i pazienti ed esce con i parametri impressi nella mente. Dall’altra parte della linea un’infermiera prende nota: «Il secondo paziente è brutto - detta - Ha un addensamento in campo polmonare. Meglio lasciare la consegna di chiamare a casa» e preparare i parenti a ogni evenienza. Preso nota, l’infermiera si mette al computer, compila la cartella clinica quindi aggiunge delle note destinate all’équipe di medici che, da cinque settimane, tiene quotidianamente i contatti con i parenti dei malati: «Noi diamo tutte le indicazioni e loro si occupano di informare a casa. Quando riusciamo, poi, ci siamo attrezzati per fare delle videochiamate con i tablet».

Da un’altra stanza esce Vittorio Roncoroni, altro pneumologo: «Gli esami della paziente sono in miglioramento. Segna i parametri» comunica a un’infermiera, seduta su una scaletta improvvisata a seggiolino. Al mattino nei due reparti Covid realizzati al Valduce ci sono in servizio 5 medici in servizio. Anche se il terzo reparto destinato a pazienti positivi è stato chiuso, l’emergenza è tutt’altro che passata.

In tarda mattinata si apre la porta del reparto: un paziente dal pronto soccorso. Un anziano portato da una Rsa della provincia. Si guarda attorno smarrito, dietro una mascherina che gli copre la bocca ma solo parzialmente il naso. Il letto viene spinto in una stanza. Sulla porta compare un nuovo post it.

«Ora abbiamo tre livelli di isolamento - spiega ancora il primario - Ci sono i pazienti non contagiati, i contagiati e i casi dubbi. Che dobbiamo mettere in stanza da soli per evitare di farli contagiare, se sono sani, o che contagino altri, se sono malati». Un incubo nell’incubo.

Un’altra stanza di apre. Un infermiere chiama una collega che sta nella zona “pulita”: «Mi prepari una garza e una siringa?». Lei scompare in una stanza e dopo pochi istanti esce con tutto l’occorrente e lo passa oltre quel confine invisibile.

La poesia in corridoio

Lungo il corridoio qualcuno ha stampato una poesia di Paul Claudel: «Quando pensiamo che sia giunta la fine, ecco che un pettirosso si mette a cantare». E sembra la frase giusta nel luogo giusto. Che la fine, al di là della sottile linea rossa, s’è vista spesso nell’ultimo mese.

«Abbiamo avuto tanti mariti e mogli - prosegue ancora il primario - Qualche volta sono stati in camera insieme. Altre volte abbiamo avuto il problema di dire a una che l’altro era morto. Ma abbiamo avuto anche coniugi che sono guariti: ricordo una paziente che doveva uscire, ma voleva salutare il marito. L’abbiamo portata in camera e sono rimasti due ore assieme. Ora anche lui è stato dimesso».

In fondo al corridoio c’è un cuore, rosso come la linea tracciata per terra lungo il corridoio. E un foglio scritto in stampatello, sempre in rosso: “Coraggio 1B. Siete una squadra forte e generosa. Un abbraccio a tutti voi”.

Oltre la sottile linea rossa due infermiere sono sedute a terra: «Un attimo di riposo» dicono, quasi a doversi giustificare di non si sa cosa. Si intuisce un sorriso, dietro maschere e mascherine. E quei sorrisi mascherati, sono la cosa che più sorprende qui dentro dove la morte, il dolore, la paura stanno giocando da settimane la loro sporca partita. Ogni volta che qualcuno parla a un collega, lo fa con dolcezza, gentilezza e regalando un sorriso, nonostante tutto.

Una donna, impegnata a pulire, chiede: «Ma come fate a stare lì dentro tutto il tempo?», dove per “lì dentro” si intende la tuta antivirus, i guanti, i calzari. Ed è una domanda che viene spontanea, a chi lì dentro c’è stato solo un paio d’ore e non ci dovrà più rientrare il giorno dopo. Passata la prima ora la temperatura dentro quella tuta si fa già insopportabile. I doppi guanti non aiutano di certo. Vorresti bere, ma non puoi. E, in fondo, è anche meglio, perché altrimenti dovresti andare in bagno, e non lo puoi fare fino al termine del turno.

Ma quella tuta ti protegge dal maledetto virus. «Il momento più critico? La svestizione alla fine» spiega un’infermiera. Che ogni cosa dev’essere fatta con grande attenzione. Prima via il primo strato di guanti. Quindi gel sul secondo strato di guanti. Via occhiali o visiera e poi il cappuccio. Quindi via la tuta e, con lei, i calzari. Poi tocca alla mascherina: via il primo elastico. Via il secondo. Ultima cosa a sparire il secondo strato di guanti. Ancora gel, in abbondanza. Ogni giorno così. Con la speranza di essere riusciti a lasciare il nemico invisibile oltre quella sottile linea rossa.

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