Emergenza coronavirus
Trincea Sant’Anna
«Qui dentro è come
essere in guerra»

I racconti di infermieri e medici: «Ogni mattina anche 50 nuovi pazienti, molti gravi»

Sarà un’immagine abusata, ma parli con medici, infermieri e personale sanitario e tutti ti raccontano: è una guerra. Quello che segue è il resoconto dalla trincea Sant’Anna, ricavato grazie alla testimonianza di più sanitari, raccolta in forma anonima e trasformata in un racconto dalla soggettiva di chi lotta in prima linea.

Il racconto dei sanitari

«Occhiali, sovraocchiali, mascherina. E poi cuffie, calzari e vestiario. E i guanti: quelli non bastano mai. Giri tutto il giorno così, da un paziente all’altro, non guardando l’orologio, saltando la pausa, cercando di coniugare emergenza e umanità. Ma è difficile, perché più passano i giorni e più i ritmi aumentano e con loro le difficoltà e le pressioni. Ogni giorno ci sono sempre più pazienti. Scarseggiano le barelle, hai paura che i calzari non siano abbastanza e temi che accada lo stesso per le mascherine. Ma ognuno, qui dentro, fa quello che può. Anzi di più. Certo, c’è paura, ma la solidarietà tra colleghi ti aiuta, ci supportiamo gli uni con gli altri.

Alcuni giorni fa le infermiere dei reparti non coinvolti direttamente con l’emergenza Covid hanno condiviso la pizza con tutti gli altri. E poi c’è chi fa preparare le torte fatte in casa e le porta al lavoro: cerchiamo così di recuperare spazi di condivisione, di scambiarci pensieri possibilmente belli. Perché per il resto sembra di essere stati proiettati in un girone dantesco.

I rianimatori e le caposale fanno turni massacranti. Nessuno è davvero preparato, dal punto di vista psicologico, a quello che stiamo vivendo. Neppure i più vecchi, quelli che ne hanno viste di emergenze. I medici giovani, poi, spesso vanno in crisi. Le persone arrivano e non respirano. E allora provi di tutto: con l’ossigeno, la c-pap, ma continuano a far fatica a respirare e nonostante questo sono lucidi.

Arriva un paziente anziano, lo vorresti intubare ma non puoi, perché la rianimazione è piena e sai che avrà pochissime chance di sopravvivere. E allora cerchi di aiutarlo come puoi, con le cure palliative: è il triage della maxi emergenza, che è differente rispetto a quello a cui siamo abituati a vedere in pronto soccorso. Ma dal punto di vista psicologico è devastante. È difficile arrendersi all’impotenza. Ma a Bergamo e a Brescia va anche peggio. Al 112 arrivano le telefonate di persone che dicono: mio marito o mia moglie non respira più. E allora l’unica cosa che puoi rispondere è: signora, deve chiamare le pompe funebri. In quelle province non hanno abbastanza ambulanze e non hanno neppure i medici per constatare i decessi.

Qui al Sant’Anna ogni mattina ci sono 30, 40, 50 nuovi pazienti. Non tutti sono positivi, e allora dobbiamo stare attenti a non far entrare in contatto chi ha il virus e chi non è detto che lo abbia. Abbiamo creato percorsi speciali, separati, ma i casi aumentano sempre di più. E sempre più pazienti muoiono. Dall’inizio dell’emergenza sono già morte una trentina di persone, qui. Persone che, soprattutto i più anziani, muoiono da soli perché nessuno può venirli a trovare. Ogni tanto a qualche parente consentiamo di vestirsi con tutte le protezioni e stare accanto al proprio caro. Ma succede raramente. Se possiamo cerchiamo di chiamare casa e di mettere in contatto un’ultima volta il paziente con i famigliari. È straziante.

Gli incubi

La notte dormire è difficile. E per tutti è così. Abbiamo anche scoperto che spesso facciamo gli stessi incubi. Quello più ricorrente è ritrovarsi in una sala piena di persone con le mascherine sui volti. E tu non sai di chi sono quegli occhi che ti guardano. Negli incubi, così come nelle giornate in cui siamo stati catapultati, giri come una trottola.

Poi esci dal lavoro. E fuori è già primavera. C’è il sole, non c’è in giro nessuno, gli alberi sono fioriti e i colori sono luminosi e sembra che quello che hai vissuto fino a poco prima sia davvero solo un incubo. È come se vivessimo in una realtà parallela. Lì dentro è una guerra. E quando ti capita il turno del mattino, prima di varcare la soglia ti fermi un po’ di più a guardare l’alba. Prima di entrare in trincea».

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