I 20 minuti del killer chiedere aiuto
Poi ha ucciso don Roberto alle spalle

Dai video delle telecamere su via Milano la ricostruzione dei tempi del delitto - Il nodo della perizia. Un volontario: «Mahmoudi fu visitato da uno psichiatra, non emerse nulla»

Venti minuti. Tanto ha atteso Ridha Mahmoudi prima di estrarre il coltello e uccidere don Roberto Malgesini. Venti minuti in cui il tunisino, da oggi alla sbarra per l’omicidio premeditato del prete di San Rocco, ha messo in scena l’ennesimo show in attesa di poter aggredire a morte il sacerdote, una volta che questi gli avesse voltato le spalle. Al netto dell’arroganza mostrata all’arrivo, sanguinante, al comando dei carabinieri («Aprite, ho ucciso il prete di San Rocco!») e del tono con cui, nel corso del primo interrogatorio, ha rivendicato fiero l’aggressione mortale del 15 settembre 2020, la ricostruzione dei tempi e delle modalità dell’omicidio fanno emergere il quadro di un uomo tanto violento quanto vile, pronto a tradire l’ennesimo gesto d’amore e di carità di don Roberto per sfogare la propria rabbiosa frustrazione.

Inizia questa mattina, in Tribunale a Como, il processo per l’omicidio dello scorso anno in piazza San Rocco. E fin dai primi testimoni si ripercorreranno quei venti minuti in cui Ridha Mahmoudi ha atteso il momento a lui più opportuno per strappare la vita a don Malgesini.

Una ricostruzione fatta anche grazie all’analisi delle telecamere del Comune piazzate all’imbocco di via Milano alta. Quelle immagini mostrano, nel crepuscolo poco prima dell’alba, un uomo che con pantaloni rossi, giacca bianca e zaino in spalla attraversa piazza San Rocco, proveniente da via Milano, diretto verso la chiesa. Sono le 6 e 41 della mattina. L’orologio della stessa telecamera segnerà le 7.05 quando lo stesso uomo viene visto allontanarsi verso il sottopasso che attraversa la Napoleona.

In quei venti minuti abbondanti il killer, che aveva con sé un coltellaccio acquistato nel mese di luglio, ha raggiunto don Roberto impegnato a riempire la sua Panda con i thermos per portare le colazioni ai senzatetto della città. Per venti minuti Mahmoudi - per sua stessa ammissione - ha spiegato al prete che non gli aveva mai negato un aiuto di aver bisogno di una visita a causa di un (inesistente) mal di denti. E, come sempre, don Malgesini aveva garantito il suo aiuto: «Dopo il giro colazioni» gli aveva assicurato. Non ci sono ovviamente solo quei venti minuti a dimostrare, secondo la Procura, la determinazione e la premeditazione del delitto. In aula sfileranno i testimoni che racconteranno di come ormai da giorni, forse da settimane se non addirittura mesi Ridha Mahmoudi aveva pianificato di uccidere o il suo avvocato di allora o don Roberto.

La rabbia del killer affonda le sue radici all’estate del 2018. Quando ricevette il decreto di espulsione dall’Italia. Ha raccontato ai poliziotti della squadra mobile Beppe Menafra, referente di Porta Aperta della Caritas, il servizio di coordinamento per la grave emarginazione in città, che il decreto di espulsione ha «aumentato a dismisura la mania di persecuzione di Mahmoudi». Ma anche che «dopo l’emissione del decreto don Roberto gli è stato più vicino del solito, trovandogli anche un avvocato e aiutandolo anche dal punto di vista morale per superare questa sua vicenda». Inizialmente «Mahmoudi era» stato «molto riconoscente a don Roberto ma dopo qualche tempo inspiegabilmente si è convinto che» il prete «avesse cospirato contro di lui per farlo espellerlo».

Forse già oggi il difensore d’ufficio di Mahmoudi, l’avvocato Davide Giudici, proverà a chiedere una perizia psichiatrica per il suo cliente. Anche se lo stesso Menafra, nelle ore successive al delitto, disse agli inquirenti che dagli atti di Porte Aperte emerge un colloquio psichiatrico: «Dal quale però on è emerso niente di rilevante dal punto di vista sia psichiatrico che psicologico».

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