«I miei sospetti all’alba della notte dei fuochi»

L’intervista L’ex capo della Mobile Pericle Bergamo: «Uno scambio di battute intercettato dopo l’attentato di viale Lecco mi lasciò sempre un dubbio. Trovai il telefonista del sequestro Mazzotti, ma non me lo fecero arrestare»

Pericle Bergamo ha diretto la squadra Mobile della questura di Como tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, quelli della “Nera, maledetta nera”, per citare il titolo di un bel numero da collezione de “L’Europeo”, anno 2004 (ottimo consiglio di lettura, a trovarlo ancora).

Figlio di un commerciante napoletano che durante la guerra perse tutto per una bomba incendiaria americana, Bergamo vive a Como dal 1969; scelse di lasciarvi famiglia e residenza anche quando la carriera lo portò prima da vicario a Vercelli e a Torino, quindi da questore a Nuoro, poi a Milano, a comandare la Polizia ferroviaria lombarda, infine ancora da questore ad Asti. Della sua Napoli ha conservato un certo, inconfondibile aplomb la cui memoria è tuttora vivissima nei ricordi di tanti colleghi e di tanti cronisti di “nera” che contribuirono alla narrazione di quell’epopea. Personaggio da romanzo, detestava le armi; lo videro scendere le scale della questura armato di una Colt a tamburo soltanto all’alba della notte dei fuochi, luglio 1981. Ma chi c’era lo ricorda anche nella penombra del suo ufficio quando all’imbrunire, sotto la lampada della scrivania, spiegava una cartina della provincia e interrogava chi gli stava attorno: «E domani?»

Già, dottor Bergamo, e domani?

Quello della cartina era un sistema che avevamo adottato sia per le rapine sia per individuare i telefonisti delle bande che all’epoca facevano i sequestri di persona. Verificavamo i luoghi da dove erano giunte le chiamate precedenti e dislocavamo le pattuglie provando a ipotizzare da dove sarebbero arrivate le successive. A volte la fortuna ci aiutava.

Per esempio?

Beh, quando individuammo e fotografammo il telefonista della banda che aveva sequestrato Cristina Mazzotti. Avevamo capito che le chiamate arrivavano da una certa area della provincia di Varese. Appena la famiglia ricevette l’ennesima telefonata la Sip ci indicò la cabina. I miei uomini erano lì vicino. Lo agganciarono subito.

Perché non lo arrestaste?

Non lo arrestammo perché l’allora procuratore, il dottor Bianchi, temette per l’incolumità della ragazza. Stavamo in sala intercettazioni, io, lui e e Ciraolo, suo sostituto, che invece avrebbe voluto arrestarlo eccome. Diceva: lo prendiamo, lo torchiamo un po’ e qualcosa dirà. Discussero anche piuttosto animatamente, ma alla fine prevalse la linea del capo. Troppo rischioso per Cristina.

Come fini?

Finì che il tizio prese il treno, pagandone il biglietto con i gettoni del telefono, e che arrivò a Milano. Lo seguimmo fino a un bar, si fermò qualche minuto, infine chiamò un taxi e scomparve. Non fu mai arrestato. Morì in una clinica di Reggio Calabria parecchi anni dopo. Si chiamava Sebastiano Spadaro.

Usava lo stesso metodo della cartina anche con i rapinatori?

Sì,per le banche, per gli uffici postali. A volte ci si azzeccava, a volte no. Ci riuscimmo anche con un pazzo che pur non centrando nulla tormentava di telefonate la famiglia di Gaby Kiss-Maerth, altra vittima di un altro celebre sequestro. Lo fermammo nei pressi di una cabina telefonica di Tavernerio.

Come andò con Gaby?

Era stata rapita da una banda di contrabbandieri valtellinesi. Dopo la liberazione ci raccontò che un giorno il suo carceriere le aveva portato due brioche dimenticando lo scontrino nella scatola. Lei lo aveva memorizzato e lo aveva inghiottito. Così fu in grado di riferire nome e indirizzo della pasticceria. Il pm Ciraolo incaricò noi e i carabinieri di battere a tappeto tutte le malghe e i rifugi della zona. Mi chiamò un collega: vieni, mi disse, c’è qualcosa di interessante. In uno scantinato aveva trovato una ciocca di capelli rossi come quelli di Gaby e quella specie di cassone di legno che si sarebbe poi rivelato il nascondiglio in cui i sequestratori l’avevano tenuta segregata. Il giorno dopo i giornali titolarono che i carabinieri avevano scovato il nascondiglio. In realtà era stata la polizia.

C’è chi dice che le città siano più pericolose oggi di allora.

Di sicuro molte cose sono cambiate. Le faccio un esempio: negli Settanta e Ottanta perdevamo le ore a inseguire le prostitute. A raccontarlo oggi non ci si crede ma stavano tutte tra piazza Volta, viale Cavallotti, via Sant’Elia, ed erano tutte italiane. Non ci si poteva fare nulla, benché la gente protestasse. Al limite si potevano allontanare quelle che non risiedevano a Como. Ma le altre... Oggi la città è molto più sicura; basti pensare alla quantità di tossicodipendenti che vivevano accampati sotto il Broletto, oppure alle rapine: al tempo se ne facevano tutti i giorni.

Ma è vero che uscì armato soltanto il giorno dopo la celebre “notte dei fuochi”?

Non ho mai amato le armi. Le ho restituite tutte il giorno stesso della pensione.

E di quella notte cosa ricorda?

Ricordo soprattutto il rammarico di non essere riuscito a indirizzare le indagini come avrei voluto. Era estate, il collega dell’ufficio politico, l’attuale Digos, era in ferie e il sottoscritto aveva fatto sempre e soltanto polizia giudiziaria. Mi chiamarono nel cuore della notte: commissario, mi dissero, sta scoppiando la città. Il povero brigadiere Carluccio disinnescò la prima bomba in via Vitani. Gli dissi in napoletano: guagliò, che coraggio che tieni. Poi morì nell’esplosione di quell’altra bomba in viale Lecco. C’era già stato il contatto, per cui tagliando il filo l’ordigno esplose.

E il rammarico?

Ai colleghi dell’ufficio politico chiesi di poter scorrere un po’ di fascicoli. Alla fine facemmo qualche perquisizione e portammo in questura un ragazzo e una ragazza. Li avevamo trovati in possesso di un fitto epistolario intrattenuto con alcuni terroristi detenuti. Al tempo la legge consentiva il fermo di soggetti che intrattenevano questo tipo di rapporti, ma in quell’occasione il magistrato non ci consentì di procedere. Così fummo costretti a lasciarli andare, mantenendo però i loro telefoni sotto controllo. Quando tornarono a casa lui la chiamò e le chiese se ci avesse detto niente: «No - rispose la ragazza - non ho detto niente». Ecco, forse sarebbe finito tutto in nulla comunque, ma quello scambio di battute mi lascia da sempre qualche dubbio.

Diciamo che all’epoca gli strumenti di indagine erano meno sofisticati di quelli in uso ai giorni nostri.

Oggi è tutto informatizzato ma sì, all’epoca le indagini si facevano così, studiando i fascicoli, scorrendo ogni mattina le relazioni delle volanti. Ricordo il caso di un duplice omicidio nei boschi di Lurate Caccivio, una coppietta che si era appartata e che fu vittima di un tentativo di rapina finito nel peggiore dei modi. Due agenti trovarono segni di vernice verde su una pietra di quel bosco. Fummo bravi e fortunati, perché il giorno dopo fermammo un’auto verde con quattro tizi a bordo. Era ovviamente ammaccata. Li interrogammo con le tecniche che si usavano allora, separandoli e provando a convincerli che uno degli altri aveva già confessato, e in poche ore il caso poté considerarsi risolto.

E lo striscione fuori dal Bassone?

Quello fu qualche giorno prima della Notte dei fuochi, un altro striscione delle “Brigate operaie” che protestavano contro la costruzione della nuova casa circondariale. Un poliziotto si avvicinò per strapparlo ma fu fermato appena in tempo dal collega. Anche quello striscione era collegato a un ordigno.

Fu lei a liberare anche il piccolo Renzo Nespoli, 11 anni, primo e forse unico sequestrato svizzero in territorio italiano nel 1977.

In realtà non fui io a liberarlo ma fu io a riconsegnarlo alle autorità svizzere.

Cosa ricorda di quell’indagine?

Il ragazzino frequentava un maneggio a Grandate, e fu strappato ai genitori sulla via del rientro. Quando lo liberarono, in autostrada, Renzo ci riservò un racconto dettagliatissimo di dove l’avevano tenuto nascosto. Descrisse perfettamente la stanza, le suppellettili, addirittura i rumori delle auto in transito, che facevano pensare a una strada ad alta percorrenza con un semaforo. Tempo dopo, a Milano, i colleghi arrestarono una banda di presunti sequestratori. Andammo anche io e i miei uomini a dare un occhio scoprendo che tra il materiale in sequestro c’era anche un certo borsone che coincideva perfettamente con la descrizione fornita dal ragazzo. Chiesi ai colleghi dove l’avessero trovata. Era una casa fuori Milano, in cui tutto corrispondeva, strada compresa. Avevamo trovato il covo.

E poi?

Dei suoi rapitori ricordava soltanto il tatuaggio sulle dita di uno di loro. Mi disse che vi si leggeva la parola “mamma”, una lettera per dito. A proposito di quando si facevano le indagini sulle relazioni contenute nel cosiddetto “mattinale”: ricordavo un tipo con un tatuaggio simile fermato dalle volanti a Como, in stazione, tempo addietro. Il ragazzino lo riconobbe.

Rimpianti?

Forse uno soltanto. Quello di non essere riuscito a tornare a Como come questore.

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