
Cronaca / Como città
Domenica 22 Giugno 2025
Il cavaliere Ciro di Pers, voce dimenticata del ’600
Dopo il rifiuto della mano della donna amata da parte dei genitori di lei, entrò nell’ordine gerosolimitano. Oltre a sonetti d’amore perfetti, scrisse componimenti civili sull’Italia e significative riflessioni sulla fugacità del tempo
Figura essenziale del nostro Seicento letterario, Ciro di Pers, vissuto tra il 1599 e il 1663, pubblicò in vita pochissimo, e solo nel 1666, a Firenze e a Vicenza, uscirono postume le prime due edizioni dei suoi versi, per iniziativa di un cugino, Carlo di Pers. Si tratta di un corpo complessivamente di trecentocinquanta testi. Importante è ricordare, per entrare nel vivo della sua opera, l’edizione delle “Poesie”, a cura e con un rilevante saggio di Michele Rak, apparsa da Einaudi nel 1978. É proprio infatti da questa pubblicazione che l’opera di Ciro ha potuto avere la circolazione che si merita tra i cultori di poesia.
Il poeta era figlio unico dei nobili Giulio Antonio e Ginevra Colloredo, e Pers è il castello di famiglia in cui nacque, in una località nei pressi di Majano, un piccolo comune del Friuli Venezia Giulia in provincia di Udine. Studiò filosofia e teologia all’università di Bologna, conobbe importanti figure del mondo letterario di allora, come Claudio Achillini (1574-1640) e Girolamo Preti (1582-1626) e si dedicò anche a letture di grandi filosofi. Rientrò poi a Pers, probabilmente nel 1618, dopo la morte del padre. Conobbe nel 1620 la giovane parente Taddea di Colloredo, che nei suoi versi appare come “Nicea”, e la chiese in matrimonio. Ma i genitori della ragazza si opposero e allora Ciro decise di entrare nell’ordine gerosolimitano dei Cavalieri di Malta, dove fu accolto nella primavera del 1626. Fu poi in varie città d’Italia: Venezia, Ferrara, ancora Bologna, dove conobbe Fulvio Testi (1593-1646), da lui ammirato, e punto di riferimento per i suoi componimenti di impostazione civile, poi andò a Pisa e nel 1627 si imbarcò per Malta, dove rimase per oltre due anni, prendendo parte a missioni militari contro i turchi. Ma a Firenze, prima del viaggio a Malta, era anche stato presentato alla corte medicea di Cosimo II, e vi conobbe, tra gli altri, Leopoldo de’ Medici, con il quale entrò in corrispondenza e che finanziò l’edizione del 1666 delle sue poesie.
L’amore per Nicea
Tornò a casa e andò poi a vivere a San Daniele, muovendosi soprattutto verso Venezia e Udine.
Tra i suoi versi più noti sono certo quelli d’amore per Nicea, di impostazione sostanzialmente marinista. Per esempio: “Ora d’amor lo stimolo pungente / desta ne l’alma mia pensier più saggi, / e mi porgono i tuoi pudichi raggi, / non men che fiamma al cor, luce alla mente. […] E voglio, al ciel drizzando i passi anch’io, / la tua scorta seguir, pura angioletta, per teco unirmi eternamente in Dio”.
Ma Ciro non manca di passare ad accenti di vivo dolore acuto in testi come il sonetto “In morte di Nicea”, che così inizia: “Dov’è la mia bella angioletta e pura / ch’a la terra ed al cielo invan la chieggio? / Me l’han rapita i fati, io ben m’avveggio, / me l’ha celata entro una tomba oscura”.
In ogni caso, nel primo gruppo delle rime per “Nicea”, come scrive Michele Rak, “comparivano tutti i moduli usuali […] i segnali convenzionali di una norma” che gli arrivava attraverso gli esempi protobarocchi dell’Achillini e del Preti.
Accanto alle poesie amorose, leggiamo versi di impostazione civile, meditazioni, appunto sulla morte, oltre a versi di argomento religioso e morale.
La vicenda di vita ha una decisa importanza nei temi di Ciro, ed entrano con frequenza nella sua opera, che se è certo da considerarsi tra i momenti salienti della poesia barocca, viene poi a impostatasi in direzione classicista.
Abbiamo evidenti tracce della sua realtà vissuta e del suo pensiero nei sonetti e nei vari ampi componimenti d’altro genere, legati a precisi momenti storici, come i ben 444 versi della densissima canzone che intitola “lamentazione Italia calamitosa”. In questo componimento troviamo versi come questi, che ci danno un’idea dei suoi momenti e movimenti espressivi ben oltre gli stessi, pur impeccabili, sonetti d’amore: “Oh già sì nella Italia e sì felice / ah quanto, ohimè, da quella / diversa sei! Da quella che soleva / cin dilettosa invidia/ vagheggiarsi dai popoli stranieri. / D’ogni miseria colma, / spettacolo doglioso a l’altrui vista / t’offri a mostrar ch’in terra / ogni felicità passa fugace”. E qui si manifesta anche un altro aspetto rilevante della sua poetica, e cioè, appunto, il senso inquieto e diffuso della fugacità delle umane cose nel tempo. Esemplare, in questa direzione, la canzone in 267 versi, “Della miseria e vanità umana”, dei quali Alberto Asor Rosa, metteva in evidenza il carattere di «vera e propria summa dei vari “memento mori” di cui è costellata la letteratura secentesca». Ciro pone subito in risalto il concetto fondamentale, espresso in due versi che poi ritorneranno più volte nel cammino del testo: “Misera sorte umana / e che cosa è qua giù che non sia vana?”, elencando una serie di ambizioni o tendenze di vario genere il cui esito ne evidenzierà comunque la sostanziale vanità.
Calcoli renali
Tornando alla vicenda biografica del nostro, eccoci al male che verrà a coglierlo attorno al 1660. Si tratta di calcolosi, il “mal di pietra” che lo condurrà a morte e di cui incontriamo non poca presenza anche nei versi: “Son ne le rene mie dunque formati / i duri sassi a la mia vita infesti / […] servono i sassi a fabricar, ma questi / per distrugger la fabrica son nati”. E mentre si avvicinava la fine, Ciro aveva da poco iniziato a scrivere la tragedia “Maurizio”...
Nello scorrere del suo esistere, la riflessione sul tempo ha dunque una parte notevole, magari facendo comparire l’oggetto concreto che per noi lo scandisce, e cioè proprio l’orologio, e a questo dedicando una serie di sonetti. Ecco, per esempio, l’attacco di “Orologio a ruote”: “Mobile ordigno di dentate rote / lacera il giorno e lo divide in ore / ed ha scritto di fior con fosche note / a chi legger le sa: Sempre su more...” Il tempo, dunque, frequente protagonista nei versi di Ciro, con il suo “ingordo artiglio”.
Tornare alla sua poesia riesce a coinvolgerci oggi nettamente, come scrive Michele Rak, per il suo evidenziare l’«incancellabilità del reale», la «non occultabilità degli affetti e delle loro lancinanti urgenze». Un’opera nella quale l’autore ha saputo articolare la raffinatezza della sua voce muovendosi anche nel senso di una sensibile attenzione civile a eventi di importanza storica della sua epoca.
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