Il principe Vittorio Emanuele e il “lavoro” al Casinò: nel 2006 l’arresto sul lago

La storia Vittorio Emanuele di Savoia tra Campione e Varenna

Un capitolo non secondario della storia di Vittorio Emanuele di Savoia passa anche da queste parti, dai lidi di Campione d’Italia, di Cernobbio (Villa d’Este) e di Varenna, dove il principe fu arrestato nel giugno del 2006 al culmine di una indagine su un giro di sfruttamento della prostituzione, riciclaggio, gioco d’azzardo, falso. L’indagine finì in nulla, o meglio: finì in una assoluzione tombale (motivazione: il fatto non sussiste) e nella liquidazione della somma di 40mila euro che l’erede di Casa Savoia incassò per i pochi giorni di ingiusta detenzione trascorsi nel carcere di Potenza.

Ne “Il principe”, la docuserie firmata da Beatrice Borromeo uscita lo scorso anno su Netflix, fu lo stesso Vittorio Emanuele a raccontare del rocambolesco e interminabile trasferimento in auto dal Lago di Como alla Basilicata in compagnia di un paio di agenti della polizia giudiziaria del pubblico ministero che aveva chiesto e ottenuto il suo arresto.

Il pm si chiamava, e si chiama, Henry John Woodcock, natali inglesi, figlio di un docente dell’Accademia navale di Livorno e di una signora napoletana, uno del quale all’epoca si diceva che fosse particolarmente sensibile, per non dire ossessionato, dai vizi dei cosiddetti vip. Quell’indagine, e le intercettazioni che i giornali e tv diffusero a mani basse («Questi giudici sono dei poveretti, degli invidiosi, degli str... Pensa a quei c... che ci stanno ascoltando»), fu un viaggio - inutile, alla luce dell’esito - in un’Italietta boccaccesca e furbetta, tutt’altro che inedita, popolata di alcuni dei personaggi che al tempo andavano per la maggiore, ma per i biografi di Casa Savoia è importante anche per un altro motivo: fu in quei giorni che, intercettato mentre chiacchierava con un compagno di cella nel carcere di Potenza, il principe ammise di avere gabbato i giudici della Corte di Assise di Parigi che nel 1991 lo avevano assolto dall’accusa di avere ammazzato il giovane tedesco Dirk Hamer, freddato mentre riposava nella cuccetta di una barca alla fonda in una rada dell’isola corsa di Cavallo. Vicenda tristissima, sulla quale la docufiction serie Netflix è tornata con prepotenza riattizzando un nugolo di polemiche mai sopite. In quella cella, reduce dalla gita a Varenna, il principe parlò della «batteria di avvocati» che lo avevano fatto assolvere «anche se io avevo torto, torto... Devo dire che li ho fregati... Eccezionale. Il Procuratore aveva chiesto 5 anni e 6 mesi. Ero sicuro di vincere».

Rispetto alla tragedia del povero Hamer, l’inchiesta comasca fu davvero poca cosa. La sintesi - senza che nessun giudice vi avesse ravvisato mai l’estremo di alcun reato - è anche la fotografia nitida del tramonto di una dinastia, e di un uomo, l’ex erede al trono, che a Campione avrebbe voluto proporsi come “porteur”, vale a dire come procacciatore di grandi giocatori, secondo una pratica assolutamente legittima e anche invalsa nella quasi totalità dei grandi casinò del mondo, benché in genere delegata a figure altre rispetto a quella dell’erede di una casa reale.

Sulle rive del lago Vittorio Emanuele potè sempre contare sull’amicizia del comasco Giuseppe “Bepi” Rizzani, cavaliere di Gran croce dell’Ordine di Maurizio e Lazzaro, il più antico ordine di Casa Savoia: «Era un uomo di grande generosità - lo ha ricordato ier Rizzani - il cui merito è stato quello di avere dedicato gran parte della sua vita al nostro Ordine, trasformandolo e modernizzandolo fino a farne un ente benefico che solo lo scorso anno ha distribuito tre milioni di euro in progetti solidali su tutto il territorio nazionale, Lombardia compresa. Era ricoveratoin ospedale da qualche giorno, stava ormai molto male. È stato un principe generoso e sfortunato che, mi lasci dire, ha anche subito parecchie ingiustizie. Ora, se tutto andrà secondo le sue volontà, potrà riposare nella basilica di Superga».

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