In prima linea al Valduce: «Leggiamo
la paura negli occhi dei pazienti»

La caposala del reparto Covid al Valduce: «Sembra di essere finiti in un film di fantascienza - Molte persone ricoverate peggiorano all’improvviso»

«A volte sembra di essere finiti in un film di fantascienza. A combattere un virus fantasma e cercando, allo stesso tempo, di rassicurare, per quanto possibile, i pazienti terrorizzati». Elena Berenato, caposala del neonato reparto Covid al Valduce, ricavato all’interno della neurologia dell’ospedale di via Dante, parla veloce. Come a far intendere che di tempo non ce n’è e che bisogna fare in fretta. Ma non una parola è buttata lì a caso.

«Nonostante i preallarmi e la pianificazione, ci siamo ritrovati all’improvviso catapultati in questa emergenza completamente nuova. E quando sei sul campo cambia tutto – spiega – L’ospedale è stato veloce a riorganizzarsi. Nel giro di 24 ore abbiamo trasformato neurologia e gastroenterologia creando un reparto di malattie infettive per i pazienti contagiati, predisponendo percorsi separati tra persone positive al Covid e quelle per cui c’è solo il sospetto ma manca l’esito del tampone, sanificando le stanze rapidamente; ma dal punto di vista psicologico è un’altra storia». Non c’è medico, infermiere, operatore socio-sanitario impegnato in questa emergenza che non ti dica la stessa cosa: l’impatto emotivo è devastante.

«A mio vantaggio – prosegue - ho la fortuna di avere a che fare con collaboratori validi, giovani, che si mettono in gioco e non si tirano indietro. Parlo di infermieri, ma anche di Oss che svolgono un ruolo essenziale. Tutto l’ospedale si è messo in gioco per affrontare questa emergenza». E nonostante l’impegno, la solidarietà, lo spirito di squadra, essere in prima linea a combattere una guerra come questa è destabilizzante: «Una collega, nei primi giorni, quando doveva fare il tampone a una paziente, mi ha confidato: “Sono entrata in sala con la paura, perché con questo virus fantasma non sai cos’hai dall’altra parte. Ma davanti ho trovato una signora che, vedendomi tutta bardata, era molto più spaventata di me. Quindi le ho sorriso e ho ripreso la carica”. Ecco, l’aspetto più sconvolgente per noi infermiere è quello di non poter essere sempre con il paziente e di non poterli vedere in faccia» perché quando arrivano in reparto hanno già le maschere dell’ossigeno o la c-pap. Si corre, i turni sono massacranti, ma «il nostro compito è anche quello di rassicurare chi viene ricoverato con il virus. Hanno lasciato in maniera improvvisa i famigliari e si sono ritrovati ricoverati in isolamento. Abbiamo attivato le tv, portiamo loro i quotidiani e cerchiamo di mantenere rapporti con le famiglie. Abbiamo iniziato a far vedere ai pazienti le foto che ci inviano da casa e ci piacerebbe attrezzarci per le videochiamate. Dopotutto non parliamo di numeri, parliamo di persone, nei cui occhi vediamo chiaramente la paura. Ed è terribile». Paura per un virus sconosciuto. E paura perché il Covid ti toglie letteralmente il fiato: «I contagiati spesso hanno un crollo clinico improvviso. Nel giro di due minuti possono peggiorare sensibilmente. Fortunatamente il contatto con la terapia intensiva è immediato e velocissimo».

A volte, però, tutti gli sforzi sono vani. Come quando, l’altroieri, ben cinque persone sono morte in una mattinata al Valduce: «Quando succede è terribile. Quei pazienti sono entrati in ospedale e sono morti da soli, senza che i famigliari li abbiano potuti vedere un’ultima volta». È nei dettagli che, spesso, si nasconde la nota più dolorosa: come la restituzione degli oggetti personali del proprio caro morto con il coronavirus: «Quando arrivano in ospedale, i loro abiti vengono isolati in appositi sacchetti di biancheria infetta. Se muoiono difficilmente quegli abiti possono essere restituiti, anche perché i famigliari stessi sono in quarantena. Noi conserviamo oggetti particolari: catenine, anelli, braccialetti. Li teniamo in apposito contenitori, così da restituire ai famigliari qualche ricordo». Infermieri, ma anche psicologi, amici e religiosi: «Non potendo far entrare i preti, il nostro vescovo ci ha permesso di dare la comunione e, per i pazienti più critici, ci ha detto di far almeno un segno della croce. Ci facciamo portavoce anche di questa realtà, e lo facciamo volentieri. Perché chiunque tu hai di fronte può essere un tuo famigliare».

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