Invalida al 100%, ma niente indennità: «Mia madre, vittima della burocrazia»

La denuncia Per Asst non è in grado di badare a se stessa in autonomia, e Inps conferma. Poi però definisce “non spettante” l’accompagnamento. Il racconto della figlia: «Un incubo»

Como

Da una parte c’è Asst che certifica una invalidità al 100%, con «connotazione di gravità». Dall’altra c’è Inps che invece nega l’assegno di accompagnamento, ritenendolo «non spettante». Succede in città, dove da qualche settimana si registra anche un sensibile aumento dei tempi di attesa per le domande di riconoscimento dell’invalidità che fino a pochi mesi fa venivano smaltite in poco più di due mesi e per le quali oggi non ne bastano quattro.

Lunga trafila di visite a pagamento

Confermata l’invalidità, ma l’assegno per l’Inps è «non spettante»

A raccontare le vicissitudini burocratiche di questa signora invalida di 80 anni è la figlia, travolta - con suo padre - da un vortice di carte, certificati, appuntamenti e richieste paradossali. «Dopo una lunga trafila di visite e di esami specialistici per lo più effettuati da solvente, vale a dire a pagamento - perché il servizio sanitario ha tempi che non si conciliano con il progredire della malattia -, Asst ha riconosciuto a mia madre l’invalidità totale - racconta la figlia -. È una donna che non può più attendere da sola ad alcuna delle incombenze quotidiane più semplici, ha bisogno di un aiuto e di una assistenza costanti. Se non fosse che, appunto, per Inps l’assegno di accompagnamento è considerato “non spettante”, benché lo stesso ente abbia confermato per iscritto il 100% di invalidità, la “condizionegrave” e l’inevitabile necessità di ausili sanitari». Che fare? Il marito della signora si è inizialmente rivolto al patronato Cisl, lo stesso cui aveva presentato la prima domanda per il riconoscimento dell’invalidità. La norma prevede che per presentare ricorso servano 600 euro. In alternativa gli suggeriscono di aspettare sei mesi e di presentare, trascorso il semestre, una domanda di aggravamento («come se si potesse peggiorare oltre il 100% di invalidità»); a scelta cade allora su un secondo patronato, quello Cgil: «Mio padre - prosegue ilr acconto - ha aggiornato tutta la documentazione e vi ha allegato la scheda di Barthel, che certifica le limitazioni funzionali di cui soffre mia madre (la scheda di Barthel è uno strumento utilizzato per valutare la capacità di un individuo di svolgere le attività della vita quotidiana, ndr), il tutto mentre lei ha continuato ad essere sottoposta a visite specialistiche a pagamento e raccogliendo referti come fossero prove da produrre in un’aula di tribunale». Il risultato è il medesimo: rifiuto.

Nessuna soluzione

«Nessuno si assume la responsabilità di guardare in faccia la realtà. Stiamo diventando un Paese che riconosce la malattia ma delega la cura»

«Allora abbiamo scritto alla Commissione invalidi, che ha risposto con una mail. Anche qui due opzioni: ricorso o nuova domanda dopo sei mesi. Nessuno che si assuma la responsabilità di guardare in faccia la realtà. Si torna all’attacco, ulteriore visita fisiatrica e nuova scheda di Barthel, con nuovo aggravamento dei punteggi, visto che nel frattempo la situazione di mia madre è ulteriormente peggiorata. Istanza presentata a metà marzo, ancora stiamo aspettando. La verità? Stiamo diventando un paese che riconosce la malattia ma nega la cura. Che certifica la disabilità ma impone burocrazia, silenzi e accesso a pagamento a diritti che dovrebbero essere basilari... Non vogliamo arrivare a un nuovo ricorso né sopportarne ancora i costi. Vorremmo soltanto che qualcuno valutasse seriamente il caso, che tenesse conto del quadro clinico. E che nessuno pretendesse che una donna invalida al 100% debba ulteriormente peggiorare per avere accesso a un diritto».

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